giovedì 24 marzo 2016

La difficile ascesa del giallo italiano

Per i lettori contemporanei, abituati ai grandi successi dei giallisti italiani (Camilleri e Lucarelli su tutti, senza dimenticare Fois, Filastò, Trevisan e tutti gli altri), sarà difficile credere che, non più tardi di qualche decennio fa, il giallo made in Italy attraversò un periodo di crisi nera che rischiò di portarlo all’estinzione, almeno a livello del grande pubblico. Negli anni ’50, infatti, la già esigua presenza di autori italiani nelle principali collane poliziesche si ridusse gradualmente al punto che, per circa un decennio, nessun romanzo italiano venne pubblicato in esse.
Il giallo italiano non aveva mai avuto vita facile. Anche se già dalla fine del XIX secolo erano stati pubblicati romanzi italiani basati su storie di delitti e indagini, la sua nascita ufficiale è datata, per opinione generalmente diffusa, con il 1931, anno in cui uscì Il sette bello di Alessandro Varaldo, un commediografo di grande successo che fu spinto dall'editore Arnoldo Mondadori a tentare una nuova avventura.
Si era in pieno periodo fascista, quando il potere costituito esercitava una pesante influenza sull’orientamento degli autori e del pubblico. L’organo ufficiale che si occupava di libri, il famoso Minculpop, impose ai giallisti italiani una serie di regole-capestro affinché le trame dei romanzi non interferissero con l’indottrinamento sistematico che si infliggeva soprattutto ai giovani. E’ facile immaginare quanto risultassero poco gradite, a un regime che sbandierava tra le sue conquiste l’eradicazione della malavita e la soddisfazione di tutta la popolazione, delle storie piene di criminali incalliti, pezzi grossi corrotti, famiglie sfasciate e ogni esempio di persone insoddisfatte e frustrate sotto la facciata della rispettabilità. Fu quindi ordinato, sotto pena del sequestro, di ambientare le trame all’estero oppure tra stranieri di passaggio in Italia; in ogni caso, i colpevoli di qualsiasi reato potevano essere solo stranieri. Inoltre, era vietato anche solo menzionare il suicidio: si arrivò all’assurdità di obbligare i traduttori a “trasformare” i suicidi in incidenti anche nelle opere straniere.
Malgrado queste imposizioni (le quali, più che all’oppressione totalitaristica, fanno pensare a un’assoluta mancanza di senso del ridicolo, peraltro tipica dell'intero modo di pensare fascista), molti autori italiani (Augusto De Angelis, Ezio D’Errico, Alessandro Varaldo, Vasco Mariotti, Armando Comez, Tito A. Spagnol e altri, in gran parte provenienti dal teatro o dal giornalismo) riuscirono a scrivere romanzi che non avevano nulla da invidiare a quelli degli stranieri loro contemporanei. Il commissario Ascanio Bonichi e il detective Gino Arrighi, creati da Varaldo, risentono un po' dello sforzo di italianizzare a forza il genere, anche a costo di scadere nel cliché (è possibile, a giudicare dal nome, che il primo possa rappresentare una sorta di omaggio al capo della polizia fascista, il prefetto Arturo Bocchini). Ma il lettore moderno, se ha la fortuna di leggere i romanzi di allora, resta sbalordito nello scoprire come il Don Poldo, sacerdote detective di Spagnol, non sia una banale imitazione del Padre Brown di Chesterton, ma un personaggio originale e spesso sorprendente. Il commissario Emile Richard della Sureté, protagonista dei romanzi di ambientazione parigina di D'Errico, può competere addirittura con il leggendario Maigret di Simenon. Il personaggio più importante, però, è il malinconico commissario milanese Carlo De Vincenzi, creato da De Angelis, per il quale non esistono Bene a Male assoluti ma ogni delitto trova una spiegazione negli istinti della mente umana: non a caso, Freud è citato spessissimo (anche i riferimenti alla cultura ebraica sono significativi, specie nel romanzo Il candeliere a sette fiamme, del 1936. Sebbene De Angelis sia stato un antifascista, non si deve vedere in questa scelta un intento polemico. Infatti, come ricorda Eucardio Momigliano in Storia tragica e grottesca dell'antisemitismo fascista, fino a poche settimane prima dell'alleanza con la Germania nel 1938, Mussolini dichiarava espressamente la sua volontà di proteggere gli ebrei italiani ed europei contro ogni discriminazione e persecuzione).
Un Giallo Mondadori anteguerra di Tito A. Spagnol

Uno dei circa 20 gialli pubblicati da De Angelis con diversi editori

L'ultimo Giallo Mondadori pubblicato prima dell'ukaze del Minculpop nel 1941

Negli anni '30-'40, Nerbini fu particolarmente attivo nella pubblicazione di gialli

Ma il Minculpop era pieno di gente che pretendeva di imporre modelli culturali anche se non era in grado di distinguere un libro da una scatola piatta, e non li ebbe mai in simpatia. Spesso il romanzo giallo fu attaccato, non solo in quanto “diseducativo”, ma anche perché tipicamente anglosassone. Uno zelante intellettuale di regime il cui nome non è stato purtroppo tramandato, raggiunse le massime vette di umorismo involontario proponendo, dalle colonne della celebre rivista letteraria “Il Bargello”, di dotare le traduzioni italiane di gialli stranieri di una fascetta con su scritto “Usi e costumi della polizia e della giustizia non sono italiani. In Italia, giustizia e pubblica sicurezza, sono cose serie”. Finché, nell’estate del 1943, prendendo spunto da un insulso fatto di cronaca (un maldestro furto compiuto da alcuni studenti che, una volta scoperti, dichiararono di essersi ispirati a un romanzo giallo), il Minculpop vietò la pubblicazione di ogni tipo di romanzi polizieschi in Italia, disponendo, al tempo stesso, il sequestro di quelli già pubblicati. Inutilmente, De Angelis, famoso anche come giornalista, si oppose a nome della categoria con parole che, dietro la raffinata ironia, erano piene di serietà e buon senso: “Il romanzo giallo può indurre ad delitto? Non lo credo. Ma, ad ogni modo, per la stessa ragione e con la medesima forza, i romanzi di Bourget possono spingere le mogli all'adulterio; quelli di Prévost, le fanciulle alla perversione; quelli di Zola, gli uomini all'abbrutimento. E perché non dire che le commedie di Pirandello potrebbero dolcemente, insensibilmente, per un vialetto di rose e anemoni, condurre qualcuno alla follia?”.
Purtroppo, erano tempi da cui la serietà e il buon senso erano definitivamente banditi.

Dopo la guerra, i giallisti italiani ripresero la loro attività. Mancava però all’appello il più importante tra loro: Augusto De Angelis, che risiedeva in Lombardia, dopo il 25 luglio 1943, era stato incarcerato con l'accusa di antifascismo. Uscito dalla galera in precarie condizioni di salute, mentre si trovava in strada a Bellagio, nel Comasco, fu avvicinato dalla donna che lo aveva denunciato che, pentita del suo gesto, cercò di scusarsi; mentre i due parlavano tra loro, senza animosità, intervenne un milite repubblichino, forse legato alla donna, e senza alcuna ragione prese a picchiare lo scrittore con pugni e calci, fino a causarne la morte. Era il 18 luglio 1944 e il delitto sarebbe rimasto impunito, come troppi altri di quel tempo: De Angelis aveva appena compiuto 56 anni.
Intanto, il gusto del pubblico era mutato: l’arrivo degli americani e la colonizzazione culturale che ne era seguita, avevano spazzato via tutto ciò che apparteneva al passato, senza andare tanto per il sottile. Per gli spettatori abituati a vedere film di propaganda o commediole del tipo telefoni bianchi, la riscoperta del cinema hollywoodiano dovette essere una vera rivoluzione; mentre, ai lettori, le traduzioni delle opere d’oltre Atlantico rappresentarono un enorme allargamento degli orizzonti: in più, rispetto al cinema, i romanzi americani non erano neppure soggetti a censure preventive come il Codice Hays. Questa situazione permise la scoperta di giallisti (autori del genere thriller, fondamentalmente diverso dai romanzi mystery fino ad allora noti) che erano anche ottimi scrittori (Hammett, Chandler, Cain, McCoy, Macdonald, Fearing, Fischer, etc.), ma anche l’importazione indiscriminata di ogni sorta di ciarpame, purché rispondesse a quelli che erano presto diventati gli stereotipi del genere (sesso & violenza & sparatorie & scazzottate, etc.). D’altro canto, i nostalgici del mystery classico preferirono rivolgere la loro attenzione a romanzi inglesi di stampo antiquato, pieni di delitti compiuti con armi del genere pistole intarsiate, curaro e pesci tropicali (secondo la beffarda definizione di Raymond Chandler) e ambientati tra improbabili castelli o residenze aristocratiche.
Gli scrittori italiani non potevano aderire a nessuno di questi due modelli senza coprirsi di ridicolo: e, infatti, i loro migliori romanzi appaiono oggi di una originalità e di una qualità letteraria molto superiore alla media di quelli stranieri. Ma la loro bravura rappresentava, agli occhi del pubblico, anche il loro limite: le storie che raccontavano apparivano troppo prossime alla realtà per risultare gradite; pertanto, vennero emarginati. A titolo di esempio, il giallista italiano più fecondo del periodo, Ezio D’Errico, quello dei romanzi ambientati a Parigi, fu capace di inanellare sette titoli tra il 1940 e il 1941, ma nel dopoguerra riuscì a pubblicare un solo libro (in seguito, ritornò al teatro, ottenendo diversi successi).
L'unico romanzo di D'Errico pubblicato nel nuovo Giallo Mondadori

La principale collana gialla italiana, quella di Mondadori, risorta nel 1946, pubblicò un solo romanzo italiano (proprio quello di D’Errico) nei primi 336 numeri (fino al 1955): nella collana anteguerra (1929-41), i titoli italiani erano stati 39 su 266 numeri! In seguito, i responsabili della collana effettuarono un generoso tentativo di riproporre qualche autore di casa nostra: tra i numeri 337 (Il sepolcro di carta di Sergio Donati) e 416 (quest’ultimo, Viatico per Marianna di Franco Enna, è del 1957) uscirono ben undici titoli italiani, proponendo tra l'altro gli originalissimi romanzi di Giuseppe Ciabattini, un anziano autore di teatro che inventò una coppia di detectives formata da due clochards milanesi, Tre Soldi e Boero, una sorta di Holmes e Watson poveri, che anticipavano Camilleri e Montalbano con il loro particolare slang. Tuttavia, il pubblico rispose molto male: le vendite calavano drasticamente se il romanzo era italiano, e l’editore si regolò di conseguenza. Nessun giallo italiano sarebbe più stato pubblicato nei “Gialli Mondadori” per oltre vent’anni.



Oltre a quella mondadoriana, gli appassionati del genere avevano a disposizione non poche collane di un certo livello: di alcune (degli editori Giumar, Aurora, Casini, Ciardi, etc.) si è persa quasi ogni traccia; altre (quelle di Feltrinelli e, molto tempo più tardi, di Rizzoli) sono sopravvissute, purtroppo, per pochissimo; due che invece sono durate a lungo, anche rinnovandosi più volte, sono state quelle di Longanesi e Garzanti. E’ significativo, comunque, come in quasi tutte queste collane, che si distinguevano dagli albi di serie B sia per la migliore scelta delle opere da pubblicare, sia per la maggiore cura delle pubblicazioni stesse, non abbiano mai dato spazio ad autori italiani, con una sola (ma importantissima) eccezione, che vedremo tra poco.
In controtendenza rispetto alle altre, fu solo la Casini ad aprire improvvisamente uno spazio ad autori italiani nella sua collana “I gialli del Secolo”, che però era già avviata alla crisi e all'estinzione. Qui, uscirono romanzi firmati da una Antonia Bullotta mai più rivista o risentita e da un criminologo di professione, Giovanni Marti.

Nonostante questa situazione tutt'altro che favorevole, ancora fino alla fine degli anni '50, i giallisti italiani dovettero ancora sopportare una serie di attacchi da parte della stampa di estrema destra, che a ogni minima occasione rivolgeva loro la delirante accusa di “fornire idee ai criminali” (in un Paese in cui si leggevano ancora pochissimi libri e c'erano ancora molti analfabeti). L'offensiva si scatenò in particolare nel 1958 dopo il “delitto di via Fontanesi” a Torino, opera di uno psicopatico che sembrava essersi ispirato al protagonista di un giallo italiano, Uccidevano di notte, pubblicato dal giornalista Italo Fasan con lo pseudonimo Byll Skyline. Per fortuna, dai tempi del ventennio, il vento era cambiato e i novelli censori si stracciarono le vesti inutilmente.

Uno scrittore italiano che volesse dedicarsi al giallo, per lungo tempo, ebbe davanti a sé solo due possibilità: o scimmiottare i peggiori modelli americani per pubblicare qualcosa in collane senza la minima pretesa e al limite della pornografia (spesso nascondendosi dietro pseudonimi americaneggianti). 
Questo romanzo è sicuramente di Franco Enna, ma sfugge a quasi tutte le ricostruzioni della sua opera omnia per via di un refuso in copertina (lo pseudonimo che usava spesso in questi casi è Lislie Chambers e non Leslie)

Conrad A. Roberts è lo pseudonimo utilizzato più spesso da Enna

Questo romanzo è sicuramente di autore italiano, che però non è stato ancora identificato

Lo stesso dicasi per questo. Notare come le immagini di copertina, volendo imitare quelle americane senza disporre degli stessi mezzi, appaiano oggi un po' ridicole
Questo è di Dino De Rugeriis

Oppure sfruttare una fama già acquisita quale autore di narrativa tout court per compiere qualche excursus nel genere: tra i risultati di questo genere, particolarmente rimarchevole è I giovedì della signora Giulia (1970), con cui Piero Chiara compie a ritroso il cammino effettuato da Mario Soldati (I racconti del maresciallo) due anni prima: nel caso di Soldati, un’opera narrativa si era trasformata nella sceneggiatura di una serie televisiva (interpretata dall’ottimo Turi Ferro); Chiara, invece, dopo aver scritto la sceneggiatura di un originale televisivo, la sviluppa in un romanzo (in un certo senso, può essere considerato un antesignano della novelization, una pratica che, più tardi, prenderà piede a Hollywood).


Un caso a parte fu quello di Leonardo Sciascia, che si servì ripetutamente del modello del romanzo giallo per denunciare in modo incisivo le collusioni del potere costituito con la delinquenza organizzata. Sciascia, che nessun critico avrebbe mai mescolato ai gialli ordinari, era invece un grande conoscitore ed amatore del genere: durante gli anni '70 e '80 avrebbe segnalato diversi capolavori ormai dimenticati, spesso letti in edizioni approssimative e raffazzonate, a Elvira Sellerio, che li avrebbe poi ripubblicati con la sua casa editrice.

Gli anni ’60 portarono un significativo cambiamento nell’atteggiamento del pubblico italiano. Sicuramente, l’impegno contestatario dei movimenti giovanili e delle organizzazioni culturali di tutto il mondo per l’emancipazione generale, portò ad una maggiore consapevolezza di tutti i consumatori di mass media. Il pubblico cinematografico dimostrò di essere diventato maggiorenne quando pretese ed ottenne l’abolizione delle censure preventive come il Codice Hays. Il cinema, non più costretto a inseguire ipocriti moralismi, poté guardare con occhio critico e lucido alla realtà (come aveva già fatto, in molti casi, anche prima, ma a prezzo di una continua persecuzione). La nuova tendenza si rifletté presto sulla letteratura di largo consumo. Gradualmente, si impose l’idea di un romanzo giallo meno spettacolare e più vicino alla realtà quotidiana: in pratica, il modello che avevano perseguito i nostri migliori scrittori e che era stato spodestato da quello più vicino al gusto cinematografico impostosi nel dopoguerra. Nel 1970 si ha la prima traduzione italiana di un romanzo di Ruth Rendell (Il mio peggiore amico), la scrittrice inglese destinata a rivelarsi la regina del giallo ambientato nella vita di tutti i giorni. Al tempo stesso, le collane più prestigiose diminuirono la quota di autori americani (privilegiando, tra questi, i romanzi più vicini al tipo realistico) per aprirsi maggiormente a quelli europei: non solo inglesi ma, ad esempio, scandinavi e poi, finalmente, italiani.
La maggiore trasformazione si compì proprio ad opera di una delle case editrici più refrattarie alla pubblicazione dei gialli italiani, la Garzanti. Fino alla metà degli anni ’60, pur gestendo tre versioni della sua prestigiosa collana (I Gialli Garzanti, che nella versione anni ’50, quella delle tre scimmiette, sono ambitissimi dai collezionisti) non aveva mai pubblicato un romanzo italiano. Poi avvenne il miracolo, con la riscoperta di Giorgio Scerbanenco: dal 1966, i suoi gialli, italiani al cento per cento, cominciarono a uscire uno dietro l’altro, incontrando un immenso favore presso il pubblico, anche all'estero.



Gli anni ’70 soprattutto segnano la rinascita della narrativa “gialla” italiana dopo un periodo di grave crisi, che aveva condotto il genere al limite della scomparsa, almeno a livello di grande pubblico. Tale rinascita si deve, fondamentalmente, a tre fattori:
il primo è la graduale presa di coscienza del pubblico dei lettori, che scoprono di poter affrontare anche attraverso della narrativa di intrattenimento (purché di buona qualità), una serie di argomenti e problemi caratteristici della vita di tutti i giorni. In precedenza, gli autori “gialli” italiani erano stati emarginati perché non risultavano in grado di fornire al pubblico le emozioni forti del thriller all’americana (sesso, violenza, sparatorie, inseguimenti, etc.) e neppure potevano offrire una cornice credibile a intrecci complessi come quelli del mystery all’inglese (castelli e dimore aristocratiche, investigatori improvvisati, etc.). Il “realismo quotidiano”, per lungo tempo limite delle storie ambientate in Italia, diventa, in questa nuova prospettiva, un punto di forza (e si afferma, nello stesso periodo, in tutto il mondo);
il secondo è, come già detto, il successo, anche internazionale, dei romanzi di Giorgio Scerbanenco, autore di grande talento ed esperienza (particolarmente noto, come giornalista, con lo pseudonimo di “Adrian”) che, verso la fine della sua vita (muore nel 1969), pubblica una serie di romanzi e racconti ambientati a Milano (il ciclo di Duca Lamberti, ma non solo), lucidissimi senza essere cinici, che fanno intuire, come mai nessuno prima, le potenzialità del genere;
il terzo è dato dall’influenza del mezzo televisivo che, lungi dall’essere l’orrenda bolgia di cattivo gusto cui siamo abituati oggi, contribuisce in modo determinante all’alfabetizzazione culturale del pubblico. La TV produce e trasmette spesso degli “originali televisivi” gialli autarchici ma di altissimo livello (memorabile Il cappello del prete da un romanzo ottocentesco di Emilio De Marchi, protagonista il grande e sfortunato Luigi Vannucchi, poi quelli di Chiara e Soldati già trattati), grazie ai quali anche i libri vengono “sdoganati”.

Il primo segno del cambiamento è la rinnovata attenzione dei maggiori editori verso gli autori di casa nostra, fino allora quasi sempre ignorati. Negli ultimi numeri della sua gloriosa “terza serie” di gialli (volumi rilegati, dalla copertina giallo e violetto), la Garzanti pubblica, insieme a Scerbanenco, anche alcuni romanzi scritti a quattro mani da Massimo Felisatti e Fabio Pittorru, del ciclo Qui squadra mobile, destinato anche a diventare un’eccellente serie televisiva caratterizzata dall’ambientazione minimalista e dall’estrema attenzione alla psicologia dei personaggi (sul tipo di La squadra, per intenderci); più tardi, esaurita la “terza serie”, la Garzanti lancia nel 1972 una “quarta serie” di gialli (tascabili), in cui trovano spazio, tra le altre cose, le ristampe di Scerbanenco e Felisatti-Pittorru; un gruppo di autori nuovi come Loriano Macchiavelli, Secondo Signoroni, Anna Maria Fontebasso, Luciana Attoli, Ruggero Ruggieri, Lamberto Benvenuti; la riedizione, a trent’anni di distanza, dei romanzi di Augusto De Angelis, il grande giallista del periodo anteguerra. L’edizione Garzanti dei romanzi di De Angelis (il ciclo del Commissario De Vincenzi) precede la messa in onda di una serie di sceneggiati ricavati da questi (interpretati dall’indimenticabile Paolo Stoppa); agli sceneggiati seguono ulteriori ristampe, stavolta ad opera di Feltrinelli e di Sonzogno.
Notare le particolari copertine, opera di Fulvio Bianconi



Un altro editore che, all’inizio degli anni ’70, si apre al giallo italiano, è Longanesi. Nella sua collezione di Gialli, dal 1970 in poi, trovano spazio diversi romanzi di Franco Enna, il più fecondo e poliedrico scrittore italiano del dopoguerra. Già attivo negli anni ’50, Enna, durante il periodo della “lunga eclissi”, aveva continuato a pubblicare (come diversi suoi colleghi) in collane effimere di editori poco noti, nascondendosi quasi sempre dietro improbabili pseudonimi americaneggianti. Finalmente, tornato a pubblicare con il suo vero nome, vara due serie che incontrano subito il favore dei lettori: quella del commissario Sartori e quella del maresciallo Lo Cascio (una dedicata a un poliziotto e una a un carabiniere: sarà forse per par condicio?). Inoltre, alcuni gialli italiani trovano spazio nella famosa collana di tascabili della Longanesi, “I Libri Pocket”: per esempio Morte di un senatore di Giuseppe Bonura (1978) e Qui commissariato di zona di Secondo Signoroni (1978).
Questo romanzo era già uscito due volte in altre edizioni con titoli diversi, firmato sempre Herbert Masson. Alla Longanesi, avevano il brutto vizio di riproporre vecchi romanzi con nuovi titoli e dietro nuovi pseudonimi, presumibilmente con grande fastidio dei lettori

Anche questo è un Franco Enna già uscito presso altri editori con altro titolo e altro pseudonimo

Lo stesso vale per questo

Questo, invece, è un romanzo nuovo e originale



Simbolicamente, il successo più grande dei giallisti italiani in questo periodo è l’abbattimento del tabù che li voleva definitivamente esclusi dalla più prestigiosa collana italiana, i Gialli Mondadori; l’ultima volta che vi erano stati pubblicati risaliva al 1957, con il n° 416 della serie (Viatico per Marianna, di Franco Enna): dopo venti anni e oltre mille numeri, nel 1977 esce il n° 1477 della serie, Petrosino e i baffi a manubrio, di Secondo Signoroni (vincitore, nel 1976, del concorso “Gran Giallo” per inediti bandito dal comune di Cattolica). La collaborazione con le iniziative della città di Cattolica (che, nel 1973, ha istituito i premi “Gran Giallo” per romanzi editi e inediti e, successivamente, ospiterà il “Mystfest”), porta la Mondadori a pubblicare anche il romanzo vincitore dell’ultima edizione del premio “Gran Giallo” (Ve lo assicuro io, di Alberto Eva, che vince nel 1978 ma uscirà solo nel 1980) e a istituire, a sua volta, un premio dedicato alla memoria del più importante direttore dei “Gialli Mondadori”, il “Premio Alberto Tedeschi”. Nella prima edizione (1979-80), l’”Alberto Tedeschi” viene attribuito a un romanzo già edito di Loriano Macchiavelli (Sarti Antonio: un diavolo per capello) e all’inedito Vado, contrabbando i diamanti e torno, di Carla Fioravanti Bosi. Entrambi questi romanzi escono nel “Giallo Mondadori”, così come, in seguito, tutti gli altri vincitori del premio. 


L’impegno della Mondadori non si ferma qui: nel 1977, in una collana denominata “Gialli Italiani Mondadori”, ristampa una serie di titoli risalenti agli anni ’30 (firmati Varaldo, Spagnol, Mariotti, D’Errico, etc.) e al dopoguerra; il progetto non durerà a lungo (poco più di un anno), ma darà modo al pubblico di scoprire alcuni autori di quello che, malgrado le assurde limitazioni imposte dalla propaganda fascista, era stato il periodo d’oro del giallo italiano.


Altri editori provano a lanciare collane gialle più o meno ambiziose, specie Rizzoli, con gli ottimi romanzi del Rigogolo, dalla veste editoriale elegante (e opera di autori affermati come Raffaele Crovi, Vincenzo Mantovani, Luciano Anselmi, Giuseppe Bonura, Carlo Della Corte, ecc) che, però, sfortunatamente, dura poco, perché il pubblico trova i volumi troppo costosi. Lo stesso editore, allora, punta ancora sui gialli ma inserendoli tra i titoli della sua collana di narrativa mainstream: il successo stavolta sarà grande e permetterà di ristampare anche molte opere dimenticate di Scerbanenco.




Notare, qui come in "Dov'è Anna?", le suggestive copertine firmate dal grande John Alcorn

Pure la Fratelli Fabbri provò a inserire con buon successo dei romanzi di giallisti italiani (Enrico Vaime, Sandro Caputo, Gaetano Gadda, Domenico Paolella, Luigi Ferrante, Inisero Cremaschi, ecc) nella sua collana “Sottoaccusa”, in cui li alternava a testi di divulgazione storica redatti su misura per un pubblico vasto ma curioso.



Ma l’evento più foriero di conseguenze sta nella scelta compiuta da alcuni personaggi di secondo piano del mondo culturale (redattori, traduttori, curatori, sceneggiatori televisivi e radiofonici, etc.) di provare ad affacciarsi nel mondo della narrativa scrivendo romanzi gialli. Tra i nomi di chi fa questa scelta troviamo i numi tutelari del giallo italiano attuale, quello che ha successo in patria ed è tradotto in tutto il mondo: Carlo Fruttero & Franco Lucentini (La donna della domenica è del 1972; sette anni dopo seguirà l’ancora più impegnativo A che punto è la notte); Paolo Levi (Ritratto di provincia in rosso apre nel 1975 la serie dei suoi romanzi); Attilio Veraldi (La mazzetta è del 1975; seguono a breve Uomo di conseguenza e Il vomerese); Enzo Russo (dopo una serie di romanzi usciti in edizioni di poco conto, scrive libri destinati a maggiore successo, ancora oggi ristampati, come Il caso Montecristo del 1976 e La tana degli ermellini del 1977); Renato Olivieri (che inaugura la serie del commissario Ambrosio con Il caso Kodra, del 1978); Riccardo Marcato e Piero Novelli (Il commissariato di Torino è del 1973); Diana Crispo e Biagio Proietti, che ricavano un'ottima novelization dalla sceneggiatura che avevano scritto per l'originale televisivo Dov'è Anna? (1976).Tutti questi scrittori approdano al successo (anche economico, specie grazie alle riduzioni televisive e cinematografiche) in età matura e dopo una gavetta lunghissima, come il massimo scrittore italiano attuale di gialli, Andrea Camilleri, che a quel tempo aveva già pubblicato un romanzo e lavorava come regista teatrale e televisivo.
Anche questa copertina è di Alcorn



Notare la copertina di Ferenc Pintér

Escono anche le prime antologie collettive, secondo uno schema che avrà molto successo in futuro: particolarmente significativa è Buon sangue italiano, pubblicata da Rusconi nel 1977.

Infine, nel 1979, esce il primo contributo critico serio e sistematico sul genere: Storia del “giallo” italiano, di Loris Rambelli (Garzanti), ancora oggi il migliore testo sull’argomento per il periodo che prende in esame.


Oggi, di gialli italiani in libreria se ne vedono fin troppi, e non tutti ugualmente validi. Ma è sempre confortante notare come, tra gli scaffali, a parte l'onnipresente Camilleri, spazi importanti siano sempre dedicati all'immenso Scerbanenco, a Franco Enna che è ormai un autore cult, e soprattutto ad Augusto De Angelis, ripetutamente ristampato in collane a larga diffusione e finalmente assurto al rango che gli spettava da sempre, quello di grande e inimitabile maestro.