mercoledì 23 dicembre 2020

James A. Brussel e le origine del profiling

La pratica del “Profiling” ossia della ricostruzione della personalità di un criminale per provvedere a una sua identificazione anche in mancanza di riconoscimenti diretti, è universalmente nota negli ultimi decenni grazie alla diffusione di film e telefilm seguiti all'uscita dell'autobiografia del celebre cacciatore di serial killer americano John Douglas, “Mindhunter” e del romanzo e poi film da essa ispirato, “Il silenzio degli innocenti”.


Copertine del libro e di una delle sue edizioni italiane 

Douglas (a destra) con il collega Robert Ressler (a sinistra) e il serial killer Ed Kemper



Thomas Harris e il suo celebre libro

Tale pratica però prende origine molto prima, ossia nel 1956. Nel dicembre di quell'anno, il capitano della polizia newyorkese, Howard Finney, si rivolse a un eccentrico ed eclettico psichiatra, James Arnold Brussel, per farsi aiutare a identificare il criminale che la stampa chiamava Mad Bomber, reo di alcuni attentati dinamitardi che non sembravano seguire alcuna logica e avevano già fatto diversi danni e feriti, ma ancora nessun morto.

Il capitano Finney


Brussel negli anni '50 e negli anni '70

Attraverso un accurato procedimento deduttivo, basandosi su indagini antropometriche e statistiche su questo tipo di criminali e sui non molti elementi ricavati dal suo modus operandi, Brussel giunse ad alcune significative conclusioni che, confrontando l'identikit da lui realizzato con una serie di segnalazioni di persone sospette, portarono all'arresto del responsabile degli attentati, George Metesky, un uomo dall'apparenza insospettabile ma preda di una incontrollabile forma di paranoia.
L'arresto di George Metesky

Il buon successo raggiunto indusse la polizia newyorkese a contattare Brussel per un successivo caso apparentemente molto simile, quello del “Dinamitardo della domenica”, attivo nel 1960. Questo criminale era molto più pericoloso di Mad Bomber, le cui azioni avevano un semplice significato dimostrativo: voleva uccidere e ci riuscì, il 6 novembre di quell'anno, quando fece esplodere una bomba in un vagone della metropolitana, uccidendo una ragazza di 15 anni, Sandra Breland. Nonostante alcuni indizi portassero a un uomo piccolo e magro, dall'aria trasandata, né Brussel né altri esperti riuscirono a condurre la polizia sulle tracce del responsabile, anche perché le azioni di questo cessarono bruscamente, in modo tale da non far escludere l'ipotesi di un suo suicidio.


La notizia in un quotidiano del tempo

Intanto, Brussel si era dedicato anche alla soluzione di delitti meno eclatanti, come quello della vedova di mezza età Mary Nerich, aggredita e uccisa a coltellate mentre si ritirava dal lavoro il 23 dicembre 1957. Sebbene la scena del crimine facesse pensare anche alla possibilità di una rapina, la metodica del delitto indusse Brussel a credere che il responsabile potesse essere un giovanissimo di gracile costituzione fisica che, per qualche ragione, ce l'aveva con le figure materne. Brussel pensava che soffrisse di acne e avesse il vizio di lasciare scritte oscene sui muri. Mettendo insieme le due cose, controllando tra studi dermatologici e segnalazioni di atti vandalici, i poliziotti giunsero in pochi giorni a uno studente sedicenne che aveva aggredito la Nerich mentre era in preda alla rabbia dopo una banale lite familiare. In seguito a un brutto voto preso a scuola, era stato duramente criticato dal padre, normalmente oppressivo: e, questa volta, anziché prendere le sue parti come di consueto, anche la madre, normalmente iperprotettiva, si era schierata contro di lui.

La notizia un un quotidiano del tempo

Non sempre i rapporti di Brussel con la polizia furono idilliaci. Le loro diverse posizioni si ritrovarono in contrasto insanabile a proposito del “Caso delle Ragazze in Carriera”. Nell'agosto del 1963, uno sconosciuto penetrò nell'appartamento condiviso da 3 ragazze di buona famiglia in un residence e ne uccise barbaramente due, forse stuprandone anche una dopo morta. Erano la ventunenne Janice Wylie (nipote dello scrittore Philip Wylie), aspirante attrice, e la ventitreenne Emily Hoffert, una giovane e ambiziosa insegnante. La polizia arrestò per questo delitto prima un giovane di colore, George Withmore, poi uno bianco, Richard Robles. Entrambi provenivano dai bassifondi della città e avevano un passato da piccoli delinquenti. Secondo Brussel, l'assassino delle due ragazze era uno che non aveva nulla a che fare con la malavita, probabilmente un uomo distinto che godeva della loro fiducia (in particolare di Janice che gli aveva aperto in vestaglia mentre era sola in casa e lo aveva fatto entrare, ed era stata uccisa per prima; dopodiché Emily era rientrata ed era stata uccisa a sua volta, però era stata ritrovata completamente vestita), elemento che restringeva enormemente il campo delle ricerche, dato che nessuna delle due poteva essere considerata una ragazza “facile”.

Janice Wylie e Emily Hoffert

Tuttavia, né la polizia né i giudici vollero ascoltare Brussel e, una volta scagionato Withmore con l'arresto di Robles, quest'ultimo fu condannato all'ergastolo. Solo nel 1986 ammise in termini molto generici di aver commesso il delitto, però si decise a farlo quando seppe che senza una confessione non sarebbe stato considerato riabilitato e ritenuto degno di passare a misure alternative. Robles è stato liberato nel 2020.

George Withmore e Richard Robles al momento dei loro arresti

Tra il 1964 e il 1966, Brussel fu impegnato prima nella caccia e poi nell'esame del cosiddetto “Strangolatore di Boston”. Questo criminale, che si introduceva facilmente nella abitazioni di donne sole, cominciò la sua carriera stuprando e uccidendo cinque donne di mezza età o anziane, seguendo sempre un modus operando abbastanza simile, nell'estate del 1962. 

Dal dicembre dell'anno successivo, nel giro di un mese, stuprò e uccise altre sei donne, stavolta giovani, con una sola eccezione. Desta particolare impressione la coincidenza per cui una di esse, Beverly Samans, abitava proprio accanto a un'altra giovane che, sotto l'impressione di questo delitto, preferì non vivere più da sola e trasferirsi in un appartamento condiviso con due amiche: questa ragazza era Emily Hoffert.

In seguito, gli sono stati attribuiti altri due delitti, per un totale di 13



Le 13 vittime

Il profilo realizzato da Brussel e da altri esperti si rivelò utilissimo quando finalmente venne arrestato un indiziato. Si trattava di un uomo che si introduceva nelle case di donne sole e ne stuprava le proprietarie, ma senza ucciderle e senza esercitare su esse alcuna particolare violenza a parte immobilizzarle sul letto. Una delle vittime lo aveva descritto in modo tale da ottenere un preciso identikit e questo aveva portato all'arresto di un ex militare, Albert DeSalvo.


Albert DeSalvo e il suo arresto

Brussel esaminò lungamente DeSalvo all'ospedale psichiatrico Bridgewater e giunse alla conclusione che fosse uno schizofrenico, da non ritenersi responsabile delle sue azioni, e quindi da rinchiudere in manicomio e tenere sotto cura, anziché recludere in galera. Nonostante la sua posizione fosse sostenuta anche da altri psichiatri, al processo, la giuria e la corte decisero che DeSalvo era responsabile e colpevole e lo mandò in galera all'ergastolo.

DeSalvo riuscì brevemente a evadere di galera poco dopo la condanna, ma fu rapidamente ripreso. Fu ucciso in carcere da un altro detenuto, rimasto ignoto, il 25 novembre 1973.

Brussel bollò con parole di fuoco la condanna, sostenendo che un inutile furore giustizialista aveva privato la psichiatria della possibilità di studiare un caso da manuale, e quindi di prevenire chissà quanti delitti successivi.

Un ultimo caso celebre in cui Brussel fu coinvolto risale al 1966 ed è quello relativo ai delitti attribuiti al dottor Carl Anthony Coppolino, un giovane anestesista che fu condannato per aver ucciso la moglie, Carmela Coppolino, anch'essa medico, e fu sospettato anche di aver ucciso un altro uomo, il colonnello in pensione William Farber, marito della sua amante, Marjorie Farber. Anche su questa condanna, Brussel espresse parecchi dubbi, soprattutto perché le principali accuse venivano dalla Farber, a suo giudizio molto più coinvolta di quanto volesse far credere.




Il dottor Coppolino, la moglie Carmela, il colonnello Farber e la moglie Marjorie

Brussel raccolse i resoconti di queste storie in un volume autobiografico pubblicato nel 1968, che fu un successo planetario.






Diverse edizioni, inclusa quella italiana, del libro di Brussel

Brussel era nato a New York il 22 aprile 1905, aveva studiato in Pennsylvania e aveva lavorato a lungo per conto delle Forze Armate e nei dipartimenti di Sanità pubblica prima di affermarsi come professionista. Aveva l'hobby di elaborare cruciverba, che uscivano su diversi quotidiani. Morì il 21 ottobre 1982.

Negli anni '50 si provò anche come autore di gialli psicologici. Il suo unico titolo noto del genere, “Just murder, darling!” si fa ricordare per lucidità e originalità.



Il romanzo di Brussel e la sua versione italiana, uscita nei "Gialli Segreti"

L'avvocato Glen Gordon scopre che la moglie Ellen, sposata in seconde nozze dopo che entrambi sono rimasti vedovi, ha ripreso una relazione con un suo ex, l'agente immobiliare Ralph Briscoe. Benché tutto faccia pensare che Ellen sia stata coinvolta di malavoglia nell'adulterio e voglia troncarlo il prima possibile, Glen è ossessionato dalla gelosia e medita una terribile vendetta. Dopo essersi procurato un alibi inattaccabile, segue Ellen in casa di Ralph e, mentre i due sono a letto, colpisce a morte l'uomo con un oggetto contundente e colpisce la donna tramortendola prima che possa riconoscerlo. Le manomette poi l'auto in modo che essa sia impossibilitata ad allontanarsi dalla scena del delitto senza lasciare tracce evidenti.

L'impeccabile comportamento di Glen in tribunale, dopo che Ellen è stata arrestata, anziché migliorare la posizione di questa, la peggiora, e alla donna viene inflitta una pesante pena detentiva.

Glen racconta la vicenda in prima persona: lo scritto è redatto in forma di un memoriale segreto che Glen ha redatto dopo aver appreso di essere affetto da una grave malattia in modo che Ellen possa leggerlo dopo la sua morte.

Di questo romanzo esiste anche una versione italiana, ma è conosciuta pochissimo.

venerdì 18 dicembre 2020

La violenza politica, l'odio cieco e il puro caso: la morte di un bravo ragazzo, Roberto Crescenzio

 Per introdurre questa storia, prendiamo in prestito l'incipit di un'altra.

Alfio Caruso, un eccellente scrittore di thriller d'impegno e di fatti storici controversi, inizia così il suo “Noi moriamo a Stalingrado”, in cui narra la vicenda di 77 militari italiani dell'Armir, neppure appartenenti ai reparti combattenti, che un giorno del 1942 partirono per una semplice consegna di legname e si ritrovarono prigionieri di un inferno dal quale tornarono vivi solo in 2:

Il più vecchio andava per i trentacinque anni, il più giovane ne aveva venti. La moneta volò per aria, da una parte c'era scritto morte, dall'altra vita. Uscì morte.”

Il libro da cui è tratta la citazione

L'autore, Alfio Caruso (1950)

La mattina del 1° ottobre 1977, mentre Roberto Crescenzio si sta preparando a uscire, nell'appartamento in cui vive con i genitori a Torino, zona Vanchiglia, la stessa moneta vola in aria per lui. E anche stavolta esce morte.

Roberto Crescenzio

Questa è una delle storie più dolorose degli anni di piombo, forse la più dolorosa in assoluto. Ma anche una delle più dimenticate, al di fuori della città che ne fu teatro. Perché la memoria storica non nasce mai obiettiva, e la sua costruzione deriva innanzitutto dal confronto tra le diverse fonti originali, tutte orientate a una lettura strumentale dei fatti. I nomi che ci vengono proposti da esempio con le etichette di “eroi” o addirittura di “martiri” sono tali solo per chi scrive e spesso lo sono diventati loro malgrado, perché se avessero potuto scegliere avrebbero preferito mille volte continuare a vivere. Non di rado accade che la canonizzazione postuma di qualcuno coinvolga perfino quelli che, da vivo, gliene avevano sempre dette di tutti i colori (caso esemplare, Giovanni Falcone). La regola sembra essere sempre quella del giornalismo di bassa lega, quello che vende copie (e oggi ottiene click e like) eccitando i più bassi istinti del lettore: un morto è come il porco, non si butta via niente. Sempre che però la sua morte sia funzionale al tipo di propaganda che si vuole portare avanti.

Se esistesse una vera giustizia, la damnatio memoriae dovrebbe colpire i criminali, cancellandone l'odioso ricordo. Invece, la regola è che colpisca le vittime innocenti, quanto più sono innocenti. Perché chi è veramente innocente, chi è veramente estraneo a tutti i tipi di logica criminale, non può essere rivendicato da nessun contendente, e quindi nessuno avrà interesse a ricordarlo.

Questo significa soltanto che, a oltre quarant'anni di distanza, ricordare Roberto Crescenzio non significa solo scrivere un articolo più originale della media, ma soprattutto adempiere a un preciso dovere civile. A patto di ricordarlo come si deve, a differenza della (fortunatamente) pochissimo seguita pagina a lui intitolata su Facebook, gestita spudoratamente e strumentalmente da neofascisti senza vergogna.

Roberto, nato a Torino il 15 luglio 1955, è un ragazzo con la testa sulle spalle, che ha ereditato dagli antenati, contadini veneti, una operosità instancabile. Diplomato perito chimico, si è messo presto a lavorare come assistente tecnico nella stessa scuola in cui ha studiato e, visto che gli rimane spesso il pomeriggio libero, svolge anche un altro lavoro per un'industria cosmetica. A volte aiuta anche il padre, Giovanni, che ha un'attività di decoratore. La sera, poi, va a seguire i corsi per studenti lavoratori dell'Università, Facoltà di Farmacia, corso di laurea in Chimica e Tecnologie farmaceutiche. Insomma, che siano poche o tante le occasioni che la vita gli metterà davanti, non vuole sprecarne nessuna. Di politica si interessa poco, al punto che nessuno ricorda le sue opinioni al riguardo (quindi, non ha alcun fondamento la strumentalizzazione di alcune pagine di estrema destra che lo qualificano come “camerata”). È fidanzato da tempo e sta già pensando di mettere su famiglia. Ma prima di tutto c'è da superare lo scoglio dell'inevitabile servizio di leva. Perciò quell'anno non ha fatto il rinvio universitario e si prepara a partire, meglio togliersi presto il pensiero. Deve presentarsi in caserma il 3 ottobre. Due giorni prima, approfittando di una mattinata libera, va a tagliarsi i capelli, così si troverà una cosa già fatta.

Tornando a casa, passando per via Po, incontra un amico, Diego Mainardo. I due scambiano qualche chiacchiera e decidono di andare a prendere un caffè al bar. Il bar più vicino, in cui si infilano, è un locale che la sera funge anche da discoteca, “L'angelo azzurro”. Quando entrano, sono gli unici clienti. Insieme a loro, dentro, ci sono il proprietario, Luigi De Maria, sua moglie Maria Benedetta Evangelista, e il barista Bruno Cattin.

"L'angelo azzurro" dopo i fatti

Lasciamoli un attimo lì, in quello che sarà l'ultimo attimo di serenità della loro vita, e parliamo di ciò che sta succedendo intorno a loro, che ne sono del tutto ignari. Farne una sintesi è veramente molto difficile, trattandosi di un periodo quanto mai controverso.

Il 1977 è un anno particolarmente “caldo” per quanto riguarda la politica italiana. È riesplosa la contestazione globale come quella del '68, ma è molto meno rivoluzionaria e molto più violenta di quella del '68. Se allora si usavano slogan come “L'immaginazione al potere” o “Una risata vi seppellirà”, gli slogan del '77 sono estremamente truculenti e inneggiano alla lotta all'ultimo sangue contro praticamente tutti. Dalla furia dei nuovi contestatori, che si dichiarano appartenenti alla sinistra extraparlamentare, non si salva nessuno, nemmeno la Cgil e il PCI che sono anzi tra i bersagli privilegiati. Uno dei fatti più simbolici della stagione è la “cacciata di Lama”, che avviene il 17 febbraio di quell'anno, quando a Luciano Lama, segretario della Cgil, intervenuto per convincere gli studenti a sgomberare alcune facoltà dell'Università La Sapienza di Roma, occupate per protesta in seguito a una serie di violenze da parte di neofascisti, viene impedito di parlare da un gruppo di militanti del gruppo “Autonomia operaia”, che prima copre la sua voce con il rumore e poi prende a sassate il suo palco, costringendolo alla fuga.




Luciano Lama a Roma il 7 febbraio 1977 e altre immagini di quel giorno

Enrico Berlinguer definisce senza mezzi termini i contestatori del '77 “squadristi rossi” e “untorelli”, chiudendo a ogni possibilità di dialogo con essi e sollecitando le istituzioni alla loro repressione. Anche se la scelta di Berlinguer appare obbligatoria per un rappresentante della democrazia parlamentare, questa avrà (almeno, secondo l'opinione di Alberto Asor Rosa, un intellettuale di gran peso nel PCI del tempo) successive conseguenza molto pesanti.

Enrico Berlinguer nel 1977

“Autonomia operaia”, che era nata come un movimento operaista non marxista, addirittura rivendicando (per mezzo di uno dei suoi fondatori, Toni Negri) una matrice ideologica cattolica simile a quella della Solidarnosc' polacca, finisce per diventare una fucina di terroristi sanguinari, protagonisti della più efferata stagione di delitti delle Brigate Rosse. La stessa cosa succede a “Lotta continua”, un movimento simile ma di stampo più dichiaratamente marxista. Nel tempo, man mano che la situazione degenera, molti membri dei due movimenti prenderanno le distanze dalle ali più violente di essi e proseguiranno l'attività politica tramite i mezzi d'informazione o facendosi eleggere tra le file di qualche partito, ma questo è ancora di là da venire.

In quello scorcio di autunno del 1977, “Autonomia operaia” e “Lotta continua” sono in pieno fervore. Perché non bisogna dimenticare che, nello stesso periodo, l'Italia è soggetta anche alle frequenti azioni criminali del terrorismo nero, quello di stampo neofascista, che non contesta apertamente nessuno, ma colpisce nel mucchio ferendo e uccidendo chi capita, portando avanti quella “strategia della tensione” che, nelle intenzioni, dovrebbe portare alla fine a un golpe e all'instaurazione di una dittatura militare. Un terrorismo che gode di parecchie protezioni e collusioni presso i rappresentanti delle istituzioni, specie nella pubblica sicurezza. L'escalation delle violenze neofasciste a Roma porta, alla fine di settembre del 1977, prima al ferimento di una ragazza colpita in strada da revolverate sparate da un'auto di passaggio, poi all'uccisione del giovane militante di “Lotta continua” Walter Rossi, 20 anni, sparato alla testa durante un volantinaggio di protesta per questo episodio, davanti a una sede del MSI. Questo delitto appare particolarmente significativo in quanto verificatosi nonostante la presenza sul posto di alcune camionette di polizia, con gli agenti che non solo non disarmano i neofascisti armati ma ne coprono la fuga e ostacolano l'arrivo dei soccorsi.


Walter Rossi

Il giorno dopo, 1°ottobre, “Lotta continua”, “Autonomia operaia” e altre organizzazioni minori chiamano a raccolta iscritti e simpatizzanti per manifestazioni di protesta in tutta Italia. La principale è quella organizzata a Torino, cui partecipano circa 3000 persone. La protesta parte subito male, con lanci di bulloni, sanpietrini e bottiglie molotov contro sedi dell'MSI o del suo sindacato (la Cisnal) e la polizia schierata a difesa di queste. Seguono alcuni scontri con la polizia, che però coinvolgono solo alcuni manifestanti. Il grosso del corteo si dirige verso Palazzo Nuovo, dove è in programma un'assemblea. Per fare questo, deve attraversare via Po.


Manifestazione romana dopo l'assassinio di Walter Rossi

Torniamo al bar dove Roberto e Diego sono entrati a prendere un caffè. “L'angelo azzurro”, al numero 46 di via Po, è un bar discoteca che ha sempre ospitato una clientela di ogni genere. Ma le dicerie volano e sono tempi in cui quasi nessuno perde tempo a verificarle. Qualche mese prima, un giovane esponente dell'estrema destra lo affittato per tenerci una fastosa festa di compleanno. Tanto è bastato perché si spargesse la voce che il locale è “un covo di neofascisti”.

Mentre quasi tutto il corteo prosegue verso Palazzo Nuovo, circa dieci manifestanti, con il volto coperto da passamontagna, si staccano da esso e attaccano il bar. Entrano all'interno, cominciano a spaccare tutto e aggrediscono i presenti. La coppia di proprietari e il barista, protetti dal bancone, hanno il tempo di scappare dal retro. Non così i due clienti. Diego viene pestato duramente, trascinato fuori e pestato ancora. Roberto, prima di essere preso, scappa nel bagno e si chiude dentro. A quel punto, l'ottusa ferocia criminale degli assassini si scatena nella sua forma peggiore. Escono fuori e lanciano all'interno delle bottiglie molotov. Tra la benzina, l'alcol delle bottiglie spaccate e la moquette infiammabile, il bar diventa un inferno di fuoco. Roberto capisce che deve andarsene ma non trova una via d'uscita. Con un incredibile sforzo di volontà attraversa il bar in fiamme, con gli abiti che bruciano anche loro. Alcuni passanti sbigottiti lo vedono spuntare fuori dal locale distrutto, ridotto a una torcia umana, e lo soccorrono. La foto che lo ritrae seduto su una sedia in mezzo alla strada, quasi carbonizzato, in attesa dell'arrivo dell'ambulanza, farà il giro del mondo accompagnata da un fremito di orrore.




Non c'è la minima speranza di salvarlo. Le ustioni coprono il 90% del corpo. Assistito dai genitori e dalla fidanzata, cessa di vivere all'ospedale CTO il 3 ottobre. Durante l'agonia sarà sempre lucidissimo, come attestato anche dal sindaco comunista Diego Novelli, che va a visitarlo e si sorprende che sia ancora vivo in quelle condizioni.

Per Torino è uno choc. I funerali, nella Chiesa di San Giulio in Orta, a spese del Comune di Torino (sarà invece la Regione Piemonte a risarcire i proprietari dei danni), vedono una enorme partecipazione popolare, specie di ragazzi e studenti, parecchi dei quali iscritti alla FIGC. Molti non ci stanno più a contestare, se questi devono essere i risultati. Dalle colonne dello stesso giornale di “Lotta Continua” arrivano prese di posizione che si dissociano da questo tipo di violenze. Però nessuno fa i nomi di chi è stato e non arriva nessuna rivendicazione ufficiale.



I familiari e gli amici al funerale

Per poterne sapere di più, occorre aspettare il “pentimento”, tre anni dopo, di un terrorista delle BR, Roberto Sandalo, precedentemente espulso da “Lotta continua” per la sua condotta troppo violenta. Arrestato nel 1980, Sandalo vuota il sacco su parecchie questioni e fa i nomi di due che erano presenti al fatto pur non partecipandovi direttamente, Roberto Vacca e Daniele Sacco Lanzoni, che gli avrebbero raccontato tutto. I due confermano e la loro testimonianza permette di condannare (sia pure a ridicole pene tra 3 e 4 anni per omicidio colposo) i militanti di “Lotta Continua” Stefano Della Casa (oggi famoso critico cinematografico, imputato del solo “concorso morale” e sempre proclamatosi innocente), Angelo Luparia, Alberto Bonvicini, Angelo Di Stefano e Francesco D'Ursi. Il fatto che si sia basato su testimonianze come quella di Sandalo (forse mentalmente disturbato: uscito dalle BR, entrò sotto falso nome nella Lega Nord, da cui fu espulso dopo essere stato riconosciuto da Mario Borghezio; allora fondò un'organizzazione terroristica anti-islamica che compì alcuni attentati presso le moschee di Milano, Abbiategrasso e Brescia, per i quali fu arrestato e condannato di nuovo: è morto in carcere nel 2014 a 56 anni) ha fatto dire ad alcuni che non si trattò di un processo regolare. Ma il fatto che un imputato poi assolto, il medico Silvio Viale, abbia sentito il bisogno di scrivere in una lettera aperta ai giornali, nel 2002, “È giusto chiedere pubblicamente perdono alla madre di Roberto Crescenzio. Lo faccio per chi non può più farlo.”, indica che evidentemente la verità era proprio lì o poco distante, e che i condannati, se davvero innocenti, avrebbero potuto benissimo liberarsi facendo i nomi dei veri responsabili.

Roberto Sandalo



Il Comune di Torino ricorda Roberto Crescenzio intitolandogli una strada nei pressi di via Guido Reni e una porzione del Parco Dora, chiamata appunto “Parco Crescenzio”, vicino alla casa in cui era cresciuto. Nel 2017, l'apposizione di una targa alla sua memoria da parte dell'Associazione vittime del terrorismo (di cui ha fatto parte sua madre Elvira fino alla sua scomparsa, nel 2014. Il padre Giovanni si ammalò e morì poco dopo il fatto, da cui non si era più ripreso) ha scatenato una stucchevole polemica sulla dizione che riporta, in quanto secondo alcuni, la dizione “vittima del terrorismo” fa pensare che fosse proprio Crescenzio l'obiettivo dell'azione criminale, e dunque sarebbe molto più corretto scrivere più genericamente “vittima della violenza politica”. Ma c'è anche chi ha obiettato che sarebbe ancora più sensato scrivere “vittima del caso”, se questo non suonasse assolutorio verso i suoi assassini.

La tomba di Roberto Crescenzio

Il borgo di Vanchiglia, del quale era originario e in cui oggi è ricordato

La "Cittadella dello Sport" con alcune strutture a lui intitolate


Due immagini del "Parco Crescenzio"