giovedì 23 febbraio 2017

Storie di fantasmi australiani

Tra le più note storie di fantasmi raccontate con dovizia di particolari dall'instancabile Charles Berlitz nei suoi libri (nella fattispecie, World of Strange Phenomena, del 1988), una delle più suggestive è quella di Frederick Fisher, che avrebbe smascherato il proprio assassino tornando dall'aldilà apposta per indicare a un conoscente il luogo in cui rinvenire il cadavere.
Rappresentazione ottocentesca dell'apparizione di Frederick Fisher

Due immagini del primo '900 del presunto luogo dell'apparizione

Più in dettaglio, la vicenda risale al 1826. Fisher, nato nel 1791, era un ex galeotto inglese condannato alla deportazione in Australia. Questo non significa necessariamente che fosse un delinquente: Arthur Koestler, nelle sue Riflessioni sull'impiccagione, ricorda che a quei tempi si poteva finire sul patibolo anche per un furto dal valore di 40 pence, l'equivalente del costo di un fazzoletto ricamato; la causa più comune di incarcerazione, tuttavia, era l'accattonaggio: i senza fissa dimora erano numerosissimi, anche perché le industrie del tempo (quasi sempre tessili) avevano il solo obbligo verso i dipendenti di retribuirli in base all'anzianità, e quindi tendevano a licenziare il personale con più anni di servizio per sostituirlo con apprendisti cui spettava un salario più basso (riportato in Breve storia del lavoro di Melvin Kranzberg e Joseph Gies).
In effetti, dopo pochi anni di lavori forzati, Fisher fu graziato per buona condotta e ricevette una concessione relativa a un appezzamento di terra (in Australia la terra abbondava) nel territorio di Campbelltown, Nuovo Galles del Sud, che riuscì a far fruttare con successo, diventando un piccolo possidente relativamente benestante, proprietario di una casa e di diversi animali. Nel 1825, però, tornò per un breve periodo in prigione, per via di debiti non pagati e, poco dopo il suo rilascio, scomparve, il 17 giugno 1826, dopo aver pagato alcuni suoi salariati e aver detto che andava a bere qualcosa con un amico.
La posizione di Campbelltown rispetto a Sydney, distante circa 60 km

Il suo vicino e migliore amico George Worrall, anche lui un ex galeotto inglese rilasciato per buona condotta, dichiarò che Fisher aveva deciso di tornare nella madrepatria ed era partito per imbarcarsi. Tuttavia, qualche tempo dopo, un altro abitante di Campbelltown, James Hurley (da alcune fonti riportato come Farley), tornando a casa in una notte di luna piena, vide una figura che emanava luce bianca, quella di un uomo seduto sullo steccato che separava la strada dai binari della ferrovia. La figura, dall'aspetto terrificante, gemette e indicò ripetutamente un torrente che scorreva oltre la liena ferroviaria, guarda caso proprio dietro alla fattoria di Fisher. Hurley svenne per l'emozione e la paura ma, appena ripresosi, corse ad avvertire le autorità. Un gruppo di operai si mise a dragare il torrente, rinvenendo il corpo semi-decomposto di Fisher il 31 ottobre 1826. Messo alle strette, Worrall finì per confessare di aver ucciso l'amico per errore, scagliando un pezzo di metallo per colpire un cavallo imbizzarrito che stava puntando minacciosamente su entrambi e colpendo accidentalmente Fisher che si trovava sulla traiettoria.
Non fu creduto, anche perché nei giorni precedenti aveva cercato di vendere tutte le proprietà di Fisher sostenendo di averle acquistate da lui prima della partenza, benché non esistesse alcun atto di compravendita a suo nome, mentre invece a casa sua furono ritrovati tutti gli atti di compravendita a nome di Fisher, evidentemente sottratti a quest'ultimo dopo morto.
Worrall fu impiccato il 5 febbraio 1827.
La storia del fantasma di Fisher fu raccontata per la prima volta sull'almanacco (un tipo di pubblicazione periodica inventata da Benjamin Franklin e molto diffusa a quel tempo nei Paesi anglofoni) Tegg Monthly Magazine, n°1, marzo-luglio 1836, da un autore rimasto sconosciuto, e da allora è stata ripresa molte altre volte, prima di arrivare a Berlitz.
Se andiamo a vedere le carte relative al processo, ancora disponibili a Sydney dove fu celebrato (alcuni documenti riportano che fu celebrato a Forbes, sempre nel Nuovo Galles del Sud, ma questa città è stata fondata solo nel 1861 e la sua area risulta disabitata fino al 1834, quando vi furono scoperte alcune miniere d'oro; oltre al fatto che la distanza tra Forbes e Campbelltown è circa 8 volte quella tra Campbelltown e Sydney), dell'apparizione del fantasma non si fa menzione neppure una volta. Sono riportate tutte le testimonianze, dalle quali emergono ulteriori dettagli che sembrano indicare la malafede di Worrall. Ad esempio, Worrall riferì che Fisher aveva acquistato un biglietto per partire sulla nave Lord St. Vincent, ancorata a Sydney. Ma in quel periodo nessuna nave con quel nome o nomi simili era mai passata per Sydney. Worrall aveva anche attribuito la fuga di Fisher al bisogno di sottrarsi a dei creditori, ma risultava invece che Fisher, dopo l'esperienza del carcere appena trascorsa, fosse ormai in regola con tutti. Worrall non aveva un alibi per la notte della scomparsa di Fisher e, pur essendo in possesso dei beni di Fisher, evitava di parlare di questo quando qualcuno sollevava la questione della sua scomparsa.
I sospetti su Worrall dovevano essere stati già piuttosto pesanti, dato che il ministro delle Colonie Alexander Mcleay aveva promesso una ricompensa di 20 sterline a chi avesse ritrovato Fisher o il suo corpo. A ritrovare Fisher erano stati alcuni operai aborigeni che partecipavano alle ricerche nella squadra di un certo George Luland, o Newland secondo altre versioni, un poliziotto che aveva scoperto delle tracce di sangue su una palizzata vicina al fiume: anche se non è chiaro dove sia stato rinvenuto, dato che un referto parla di corpo ritrovato seppellito in un campo di lato al torrente e un altro di corpo estratto direttamente dal torrente. La posizione del corpo fu comunque scoperta per via dell'odore di putrefazione che questo emanava, riconosciuto da un aborigeno di nome Gilbert. Appena scoperto il corpo, il capo della polizia di Campbelltown, Robert Burke, andò ad arrestare Worrall.
Dettaglio alquanto inquietante, il funzionario del governo che amministrava la proprietà di Fisher in attesa che il fratello, suo unico erede, arrivasse da Sydney, si suicidò durante l'esercizio di questa funzione, nello stesso 1827. Ma non esiste alcun collegamento tra i due fatti.
La vicenda del fantasma di Fisher, dunque, è pura fantasia.
Gli abitanti di Campbelltown, tuttavia, hanno reso questa storia lo spunto per far diventare la loro cittadina una importante attrazione turistica. Molti edifici del tempo sono sono stati restaurati e fanno bella mostra di sé in città (la ex casa di Worrall è diventata il teatro cittadino); ogni anno, Campbelltown ospita un festival dedicato ai fantasmi, che si tiene dal 3 al 18 novembre, con sfilate di carri e maschere e manifestazioni di altro tipo.

Immagini dal Festival dei Fantasmi di Campbelltown

La casa di George Worrall trasformata in teatro cittadino


Riferimenti locali alla storia di Fisher

Dopo quella di Fisher, infatti, sono nate molte altre storie di fantasmi nella zona.
La più recente (riportata dai giornali locali nel 2016) è quella relativa alla ragazza insanguinata e piangente dagli abiti stracciati che infesterebbe la stazione ferroviaria di Macquarie Fields, a meno di 15 km da Campbelltown. Tale ragazza sarebbe stata investita da un treno.
La stazione ferroviaria di Macquarie Fields

Indagini recenti hanno appurato che una donna fu effettivamente investita da un treno in arrivo a Macquarie Fields, alle 15,53 di sabato 7 luglio 1906. La donna si chiamava Emily Kay Georgenson, era nata in Scozia il 19 giugno 1864 e si era trasferita in Australia con la famiglia, al seguito del padre, capitano di navi mercantili, nel 1879. Nubile, da qualche tempo non stava bene ed era stata ricoverata in un “ospedale” (forse un manicomio) di Wahroonga, perché sofferente di “insonnia e malinconia”. Quel giorno, aveva avuto il permesso di far visita ad alcuni parenti a Glenfield, ma era stata accompagnata da un'infermiera. Al ritorno, Emily era sfuggita alla sorveglianza di questa, saltando giù dal treno un attimo prima della partenza (l'infermiera sarebbe poi scesa alla prima fermata, Ingleburn, e avrebbe tentato inutilmente di raggiungerla), poi era salita su un altro convoglio diretto a Macquarie Fields. Qui, era scesa e si era rifugiata momentaneamente in un capanno per gli attrezzi vicino ai binari. All'arrivo del treno successivo, era corsa sui binari e si era gettata sotto le rotaie. I medici legali che lavorarono sul caso non ebbero mai dubbi sul fatto che si trattasse di un suicidio.
La posizione di Macquarie Fields rispetto a Campbelltown

La distanza tra Macquarie Fields a Glenfield

La distanza tra Macqarie Fields e Ingleburn

La distanza tra Wahroonga e Macquarie Fields




giovedì 16 febbraio 2017

La strana malattia di Don Orione

Luigi Orione, nato a Pontecurone in provincia di Alessandria il 23 giugno 1972 e morto a Sanremo il 12 marzo 1940, è stato una delle figure più controverse della Chiesa Cattolica del XX secolo. Oggi, salito agli altari come San Luigi Orione (beatificato nel 1980 e poi canonizzato nel 2004, sempre da Giovanni Paolo II), è oggetto di appassionate agiografie provenienti dalla totalità del mondo cattolico. In vita, tuttavia, non fu altrettanto amato, soprattutto da alcuni vescovi e cardinali che fecero di tutto per screditarlo, tanto più dopo che, negli anni '20, si impegnò personalmente a difendere un'altra figura non meno controversa, quella di Padre Pio da Pietralcina (1887-1968), il “frate delle stimmate” del monastero cappuccino di S. Giovanni Rotondo (FG), pure duramente contrastato in vita dalla Curia Romana e descritto apertamente come un ciarlatano da autorevoli prelati come Agostino Gemelli (1878-1959).
Luigi Orione

Padre Pio, all'anagrafe Francesco Forgione

Agostino Gemelli 

Non è questa la sede per trattare dei presunti “miracoli” che hanno portato agli altari sia Padre Pio sia Don Orione, entrambi peraltro oggetto di vivacissime e ubiquitarie devozioni popolari già ben prima che la Chiesa li consacrasse definitivamente. La questione di oggi riguarda una vicenda, a lungo liquidata come pure diceria ma riproposta con accenti vibranti a distanza di diversi anni, in un libro che, al suo apparire, destò uno scandalo enorme nella Chiesa e tra i fedeli, Via col vento in Vaticano.
Via col vento in Vaticano uscì nelle edizioni Kaos nel 1998. La Curia romana tentò in tutti i modi di bloccarlo, anche con azioni legali, ottenendo però il solo risultato di fargli una pubblicità enorme, grazie alla quale il volume arrivò a vendere 100.000 copie in Italia. A redigerlo erano stati un gruppo di prelati (nascosti sotto il nome “I millenari”) scandalizzati dalla disinvoltura dei loro colleghi, e decisi a denunciarne il cinismo, la spregiudicatezza, il carrierismo, l'ipocrisia e i comportamenti privati agli antipodi di ogni insegnamento cristiano. Uno degli autori, Don Luigi Marinelli (1922-2000), protonotario apostolico in pensione originario di Cerignola (FG) ma in servizio presso la Curia per 45 anni, uscì allo scoperto e affrontò i processi per diffamazione che gli furono intentati da alcuni vescovi e cardinali di cui aveva svelato gli scheletri nell'armadio, processi che non si conclusero per la morte di Marinelli stesso.
La copertina di Via col vento in Vaticano

Luigi Marinelli

Nel IV capitolo, Via col vento in Vaticano, narra delle persecuzioni subite sia da Padre Pio, sia da Don Orione. E, di quest'ultimo, racconta che la sua morte fu causata dalla sifilide, che lo affliggeva da diversi anni. Sifilide che contrasse quando fu deliberatamente infettato, a Messina, da un barbiere che era stato corrotto e istigato dai suoi avversari della Curia.
La storia della sifilide è presente in tutte le moderne agiografie di Don Orione, ma se ne parla in toni affatto diversi. Si dice che Don Orione soffrì di una eruzione cutanea molto fastidiosa e che i suoi avversari la attribuirono alla sifilide, arrivando al punto da spedirgli in dono (naturalmente anonimo) degli opuscoli su come curarla. Si dice che effettivamente un barbiere messinese cercò di infettarlo, ma senza riuscirci. Si dice che la diceria della sifilide lo perseguitò per tutta la sua vita, provocandogli disagio e dolore. Si dice che la storia di un sacerdote di cui non è stato tramandato il nome, che era stato scoperto tra i clienti di un lupanare, fornì un comodo spunto ai suoi nemici, che identificarono prontamente tale sconosciuto sacerdote proprio in Don Orione. Del resto, tra le tante accuse mosse anche a Padre Pio, una delle più ricorrenti era proprio quella di intrattenere relazioni intime con alcune delle sue fedeli. Evidentemente, a quel tempo più di adesso, l'argomento era di sicura presa sul pubblico più impressionabile.
Don Orione è stato un prete scomodo, per la sincerità della sua fede e per il suo attivismo, tutto dedicato alla cura dei più bisognosi, soprattutto orfani e disabili, secondo lo spirito che lo portò a dedicarsi al potenziamento delle case di cura e ricovero per gli handicappati gravi, le “Case della Divina Provvidenza” fondate nel 1832 da un altro santo piemontese, Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842), da cui il nome “Cottolengo” con cui vengono abitualmente chiamate. La “Piccola Opera della Divina Provvidenza” (oggi chiamata “Opera Don Orione”) e la “Congregazione delle piccole suore missionarie della Carità”, che hanno inviato missionari in tutto il mondo, stanno ancora adesso a testimoniare la sua attività infaticabile.
Giuseppe Benedetto Cottolengo

Il primo istituto del Cottolengo, quello di Torino

In particolare, Don Orione fu attivissimo nel salvataggio e nella cura dei bambini rimasti orfani nel terrificante terremoto di Messina e Reggio Calabria del dicembre 1908. Recatosi sul posto tra i primi soccorritori, perché davanti a una tale devastazione non si fidava di delegare compiti ad altri, finì per gestire non solo un numero enorme di orfani ma anche un flusso enorme di finanziamenti che gli arrivavano tramite le offerte dei fedeli alle varie parrocchie che avevano aperto sottoscrizioni ad hoc.
Gli ottimi risultati raggiunti sia nei salvataggi sia nelle successive sistemazioni dei bambini, stanno a dimostrare che Don Orione spese i finanziamenti proprio per lo scopo per il quale erano stati raccolti, non lasciando spazio ai tanti profittatori che, come sempre, intendevano lucrare sulle disgrazie altrui per arricchirsi. Un comportamento del genere, soprattutto pensando alle pressioni che dovette subire da più parti perché gestisse i fondi in modo più disinvolto, è sicuramente all'origine della sua successiva persecuzione.

Immagini di devastazioni prodotte a Messina e poi a Reggio Calabria dal terremoto del 28 dicembre 1908

Dunque, che in chiave puramente cristiana Don Orione sia stato davvero un santo, non ci sono dubbi, sifilide o non sifilide.
Un dettaglio manca però in tutte le sua agiografie: quello relativo alle circostanze della sua morte. Perfino di Cottolengo, morto quasi un secolo prima, sappiamo che morì di tifo, mentre tutte le fonti che trattano di Don Orione saltano a pie' pari l'argomento, compresa Wikipedia.
Via col vento in Vaticano racconta invece che, alla fine degli anni '30, dopo che la sifilide gli era stata diagnosticata senza ombra di dubbio e la sua salute si era gravemente deteriorata, fu affidato “sotto stretta sorveglianza a una casa di suore di Sanremo, dove trascorse gli ultimi giorni di vita”.


Sicuramente, con tanti ospedali gestiti da opere religiose, Don Orione fu curato da medici cattolici osservanti e praticanti, ragione per cui è estremamente improbabile che qualcuno di essi abbia mai rotto il muro di silenzio per dichiarare che il povero sacerdote era malato sul serio.

mercoledì 8 febbraio 2017

Il triste calvario dell'elefantessa Topsy

Alla fine del XIX secolo, anche nelle società più evolute tecnologicamente, la gran parte delle persone aveva scarso rispetto per gli altri esseri umani e fenomeni come il classismo o il razzismo erano considerati del tutto normali e legittimi. Si può immaginare, dunque, di quanta considerazione potessero godere i malcapitati animali cui fosse capitata la sciagura di venire a contatto con l'uomo.
Un caso esemplare di questa ottusa crudeltà è quello dell'elefantessa Topsy, nata nel Sud-Est asiatico intorno al 1875, catturata nell'infanzia dai bracconieri, trasportata clandestinamente negli Usa e poi passata per diversi proprietari che cercarono di lucrare quanti più guadagni possibile offrendo lo spettacolo di un animale così esotico alla gente comune che non ne aveva mai visto uno.
Topsy fu addestrata, con i crudeli metodi di allora, a compiere diversi tipi di esibizione, quali andare sul monopattino, fare le capriole, alzarsi sulle sole zampe posteriori e ballare indossando un gonnellino di tulle. Il suo carattere mite come normalmente è quello degli elefanti, a forza di subire angherie spesso gratuite, finì per diventare piuttosto aggressivo e, date le sue dimensioni (circa 3 metri di altezza, 6 di lunghezza, peso stimato tra le 4 e le 6 tonnellate), anche molto pericolosa. Lavorava per il circo Forepaugh, che cercava di fare concorrenza al più noto Barnum, e per molto tempo fu spacciata per “il primo elefante nato sul suolo americano”.



Alcune immagini sulla permanenza di Topsy nel circo Forepaugh

La sua permanenza nel circo Forepaugh ebbe termine dopo uno spiacevole episodio, nel quale però la povera bestia non aveva la minima responsabilità. Il 27 maggio 1902, a Brooklyn, uno sfaccendato di nome James Fielding Blount, ubriaco, entrò nel recinto degli elefanti e cominciò a infastidirli. Giunto davanti a Topsy, le gettò della sabbia in faccia e poi le lanciò un mozzicone acceso di sigaro nella bocca, ustionandogliela. Benché gli elefanti fossero tutti legati, Topsy reagì afferrando l'uomo con la proboscide, attirandolo sotto di sé e poi schiacciandolo a morte con le zampe.
I giornali si gettarono a capofitto sulla storia e, prestando fede alle voci più assurde senza prendersi la briga di verificarle, scrissero che Topsy, nel corso delle tournées del circo, aveva già ucciso la bellezza di 12 spettatori. In seguito, però, la cifra fu ridimensionata a 2 lavoratori del circo Forepaugh, che sarebbero stati uccisi uno a Waco in Texas e l'altro a Parigi. Nel 2013, però, il giornalista Michael Daly, che stava scrivendo un libro sulla storia di Topsy, verificò attentamente tutte le fonti disponibili e arrivò alla conclusione che a Waco nessuno è mai stato ucciso da un elefante, mentre Topsy potrebbe essere al massimo responsabile del solo ferimento di un uomo durante la preparazione di uno spettacolo a Parigi.
Peraltro, nello stesso 1902, mentre Topsy veniva trasferita a Kingston, New York, durante la sua discesa dal treno che l'aveva trasportata, un altro sfaccendato di nome Louis Dodero la colpì dietro l'orecchio con un bastone, scatenandone la reazione (fu sollevato con la proboscide e scagliato via, ma restò solo ferito). Intanto, però, Topsy era ormai marchiata dalla reputazione di “elefante cattivo”.
Subito dopo, Topsy fu venduta a un certo William Alt, gestore del Sea Lion Park di Coney Island, che intendeva impiegarla non solo come attrazione (aveva già diversi animali in esposizione) ma anche per i lavori pesanti di trasporto. Nel tentativo di indurla a spostare una pesante giostra, dato che l'elefantessa non si decideva a trascinarla, Alt la colpì con un forcone, cosa che indusse Topsy a tentare la fuga fuori del parco, inseguita da Alt che alla fine riuscì a riprenderla, anche se per il trambusto provocato l'uomo fu arrestato e fu costretto a pagare una multa. Alt era spesso ubriaco e, in queste occasioni, capitava che lasciasse libera Topsy, che usciva dal parco e se ne andava scorrazzando per la città, terrorizzando gli abitanti, compresi gli agenti della polizia locale.
Finì che i proprietari del Sea Lion Park, Frederick Thompson e Elmer Dundy, licenziarono Alt e decisero di eliminare Topsy, ormai ritenuta ingovernabile.
Praticare l'eutanasia a un elefante era una cosa difficilissima. Tempo addietro si era provato a eliminare elefanti impazziti attraverso l'impiccagione o l'elettrocuzione, ma questi tentativi si erano risolti in terribili disastri, per cui il presidente della Società Americana per la Prevenzione della Crudeltà sugli Animali insorse e, a forza di insistere, ottenne almeno che Topsy fosse uccisa rapidamente attraverso la combinazione di più sistemi.
Thompson e Dundy decisero di uccidere la povera bestia usando il veleno (cianuro mescolato a un pasto di carote), l'elettrocuzione attraverso la somministrazione di una potente corrente elettrica e l'impiccagione attraverso delle corde spesse e tirate da un verricello mentre veniva somministrata la corrente. Con il cinismo tipico degli impresari del tempo, organizzarono per l'evento un vero e proprio spettacolo, con i biglietti venduti a 25 cent l'uno. Vendettero oltre 100 biglietti a persone che furono ammesse nel parco, ma circa altre 1500 seguirono l'esecuzione dai balconi e dai tetti dei palazzi intorno nella data stabilita, la mattina di domenica 4 gennaio 1903.
Si era stabilito che Topsy sarebbe stata uccisa su una piattaforma appositamente predisposta, ma l'elefantessa rifiutò di attraversare il pontile che era stato predisposto ad hoc; l'ex gestore William Alt, colto da un improvviso moto di dignità, rifiutò di provare a condurre lui la bestia al luogo dell'esecuzione, anche quando gli furono offerti 25 dollari per farlo. Alla fine, gli organizzatori decisero di uccidere Topsy dove si era fermata, proprio all'esterno della capanna dove dormiva, e trasferirono lì tutte le complesse apparecchiature predisposte sia per l'impiccagione, sia per l'elettrocuzione. Gli inservienti strinsero la zampa anteriore destra e quella posteriore sinistra dell'elefantessa in due involucri di rame isolati dal suolo, per favorire il passaggio della corrente senza che questa si scaricasse a terra. Un addetto stampa del Sea Lion Park si incaricò di somministrare a Topsy l'ultimo pasto contenente cianuro e, mentre l'elefantessa mangiava, alle 14,45, il capo elettricista P.D. Sharkey, che aveva curato l'allestimento dell'apparato elettrico, diede a un suo subordinato il segnale di inviare la corrente dalla stazione di Bay Ridge, poco distante.

Due immagini dell'esecuzione di Topsy

La scossa, dall'intensità di 6.600 volt, durò circa 10 secondi, dopo dei quali l'animale ricadde esanime. Per sicurezza, i verricelli le serrarono anche le corde intorno alla gola per 10 minuti, anche se, già alle 14,47, due veterinari e un funzionario della Società Americana per la Prevenzione della Crudeltà sugli Animali attestarono che il cuore non batteva più. Durante la scossa, un elettricista poco prudente che era rimasto nei pressi dei fili, rischiò di morire folgorato e se la cavò con alcune ustioni.
L'eutanasia di Topsy su filmata da una troupe della Società Cinematografica di Thomas Alva Edison, che in quel periodo stava lanciando una sua macchina cinematografica alternativa a quella inventata dai fratelli Lumière, il cinetoscopio. Il filmato, intitolato Electrocuting an Elephant, diretto da Edwin S. Porter o da Jacob Blair Smith, è lungo 74 secondi ed è oggi custodito, come altri dello stesso periodo, alla Biblioteca del Congresso, sotto forma di stampa su carta di tutti i fotogrammi, perché la copia su pellicola è andata dispersa o distrutta, come del resto è accaduto per la maggior parte dei film girati a quel tempo.