sabato 15 aprile 2017

Tra Cold Case e CSI: Cangrande I della Scala

Cangrande (originariamente Can Francesco) della Scala è una delle più importanti figure di aristocratici e guerrieri nella frammentata e turbolenta Italia del XIV secolo. Nato nel marzo del 1291 da una famiglia di nobili veronesi, a soli 20 anni, divenne il leader dei ghibellini della sua città. Estese rapidamente la sua influenza fino alle città di Padova, Vicenza e Treviso, mentre la sua fedeltà all'imperatore Enrico VII gli valse il titolo di Vicario Imperiale di Mantova. Fu anche un importante mecenate di artisti, primo tra tutti Dante Alighieri.
Ritratto di Cangrande I della Scala

Ritratto (immaginario) di Dante Alighieri

Cangrande morì improvvisamente, nel pieno dell'ascesa e in età ancora molto giovane, il 22 luglio 1329, a Treviso, città che aveva appena occupato con il suo esercito. Il decesso fu inizialmente attribuito a una tossinfezione intestinale o a un attacco di malaria (la malattia infettiva che ha ucciso più persone al mondo nella Storia. Il Veneto, come gran parte delle pianure italiane, ne era infestato, e lo stesso Dante Alighieri ne era morto 8 anni prima). Non mancarono, tuttavia, voci per cui Cangrande sarebbe stato avvelenato. All'epoca, era assolutamente impensabile che si potesse compiere un'autopsia e queste voci restarono senza seguito. Fu poi seppellito nella cattedrale di Santa Maria Antica a Verona, davanti alla quale c'è la sua statua equestre.
La statua equestre di Cangrande I davanti Santa Maria Antica
Il sarcofago di Cangrande I

Nel febbraio 2004, un'equipe di ricercatori del Dipartimento di Paleopatologia dell'Università di Pisa, guidata dal prof. Gino Fornaciari, ottenne il permesso di riesumare i resti del condottiero per effettuare degli esami autoptici. Aprendo la tomba, vi si rinvenne il corpo mummificato (naturalmente, senza imbalsamazione) in condizioni decisamente buone, che permisero di svolgere tutti gli esami necessari presso l'Ospedale Maggiore di Verona.
Come apparve la mummia di Cangrande I all'apertura del sarcofago

I controlli furono tutti svolti in modo da intaccare il meno possibile i resti. Cangrande apparve agli esami obiettivi e radiologici come un uomo di una certa prestanza fisica (non meno di 175 cm, parecchio per quel periodo), ben nutrito e di grande sviluppo muscolare, ma anche soggetto a iniziali problemi artrosici ai gomiti e alle ginocchia, evidentemente in seguito agli sforzi dovuti all'uso delle armi e al tanto tempo trascorso a cavallo. I polmoni mostravano poi un inizio di enfisema polmonare, dovuto con ogni probabilità al fumo inalato sostando vicino a bracieri e focolari per riscaldarsi, dato che a quel tempo i camini non erano ancora stati inventati.

Tac di Cangrande I
Il tessuto polmonare di Cangrande I

I dati più importanti, però, si ottennero dagli esami obiettivi e istologici degli organi addominali, in particolare intestino e fegato, che erano discretamente ben conservati.
La malattia mortale di Cangrande iniziò dopo che il condottiero si dissetò con le acque molto fredde della sorgente dei Santi Quaranta, alle porte di Treviso, provocandosi una congestione. Uno dei suoi medici (di cui non è stato tramandato il nome, ma si sa che il successore di Cangrande, Mastino II, lo fece successivamente impiccare, anche se le ragioni ufficiali di questa condanna non sono note) lo prese in cura, ma Cangrande non migliorò. La sintomatologia, che si presentava soprattutto con vomito e diarrea, peggiorò costantemente fino al decesso, nel giro di 4 giorni.
Il fegato di Cangrande, all'esame istologico, non apparve cirrotico come ci si aspettava, ma fibrotico, fatto che ne aveva facilitato la conservazione. I campioni prelevati, sottoposti ad analisi tossicologiche da parte del prof. Franco Tagliaro dell'Università di Verona, evidenziarono la presenza di molte sostanze di uso comune a quel tempo, anche nella preparazione degli alimenti (camomilla, gelso nero, passiflora, ecc) ma soprattutto di una quantità abnorme di digossina e digitossina, due molecole presenti nella Digitalis purpurea, utilissime nella cura delle disfunzioni cardiache (ma all'epoca di Cangrande questo non era noto) e molto tossiche ad alti dosaggi o per bioaccumulo nel tempo.
Il fegato di Cangrande I e il suo aspetto al microscopio




Le analisi tossicologiche che attestano la presenza e la quantità di digossina e digitossina

Anche negli altri reperti, in particolare nei residui di feci ancora presenti nell'intestino, furono rinvenute grandi e inspiegabili quantità delle due molecole.
Il quadro sintomatologico della malattia di Cangrande è perfettamente compatibile con quello dell'avvelenamento da Digitalis purpurea.
La Digitalis pupurea

Cangrande fu dunque avvelenato da uno dei suoi medici.
Ma chi fu il mandante del delitto?
Non è facile dirlo. Il Signore di Verona aveva ovviamente moltissimi nemici, e la sua ascesa doveva sembrare preoccupante a molti, anche perché pareva inarrestabile. Poco prima che morisse, un poeta guelfo (Niccolò de' Rossi) che certo non era suo simpatizzante, aveva profetizzato che sarebbe diventato Re d'Italia entro un anno.
Non era però facile raggiungere la sua corte dall'esterno, quindi è più facile pensare che il delitto sia maturato proprio all'interno della sua stessa cerchia.
Il principale indiziato è dunque il successore, il nipote Mastino II (1308-51), che governò insieme al fratello maggiore Alberto, anche se il ruolo di questo appare puramente formale. Mastino Della Scala non aveva le stesse qualità diplomatiche e militari dello zio, tant'è che il suo governo si ridusse a una serie di campagne militari velleitarie e di pesanti sconfitte che ridimensionarono il ruolo di Verona nello scacchiere dei Comuni italiani. In compenso, era un uomo ambiziosissimo e privo di scrupoli, anche verso i suoi stessi parenti: nel 1338, sospettando che un altro zio, Bartolomeo della Scala, stesse tramando contro di lui, lo uccise personalmente trafiggendolo con la spada. Bartolomeo della Scala era il vescovo di Verona e fu ucciso proprio davanti al Palazzo vescovile. Dopo questo delitto, Verona restò senza vescovo per 5 anni.
Il palazzo vescovile di Verona, oggi
Statua equestre di Mastino II della Scala a Verona. Non ne esistono ritratti



Senza i risultati dell'autopsia, Mastino II non poteva sapere che Cangrande era stato avvelenato e, di conseguenza, condannare a morte il medico assassino. Ma, evidentemente, lo sapeva lo stesso, anche senza bisogno degli esami. La stessa esecuzione del medico può apparire come il tentativo di mettere a tacere definitivamente un testimone molto scomodo.

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