venerdì 28 febbraio 2020

Barbara Graham prima di "I want to live!"


Una persona dal destino segnato, reso evidente sin dalla nascita: ma questo destino prenderà la forma di un caso giudiziario che, grazie anche alla cassa di risonanza dei mass media, avrà un enorme seguito di pubblico.
Non è una storia di oggi, ma di molto tempo fa. Alla protagonista, se fosse viva, mancherebbe poco per diventare centenaria. Invece, visse poco meno di 32 anni.
Nacque come Barbara Elaine Ford il 26 giugno 1923 a Oakland, California, figlia della prostituta diciassettenne Hortense Ford, di origine portoghese (il nome originario era Furtado) e di un padre rimasto sempre sconosciuto. Dopo un anno e mezzo, nel 1925, da un altro uomo, la madre ebbe un'altra figlia, Claire; poi sposò un certo Joseph Wood e nel 1930 ebbe un terzo figlio, chiamato anche lui Joseph. Alla nascita del bambino, però, il padre era già morto e la madre non poté fare altro che riprendere la sua vita di prima, entrando e uscendo di galera.

Hortense Ford negli anni '50, con il nipote Tommy

Barbara fu separata dalla madre per la prima volta poco dopo la nascita della sorella, quando la donna finì in carcere e finì allevata da estranei che si curarono poco di lei, ragione per cui ebbe un'istruzione limitata e finì presto per mettersi nei guai. Appena entrata nell'adolescenza, si ritrovò condannata al riformatorio per vagabondaggio e fu rinchiusa nello stesso istituto correzionale in cui era stata più volte reclusa anche la madre, il Ventura State School for Girls, dove restò fino al 1939.
Uscita dal riformatorio, benché avesse solo 16 anni, sposò un marinaio della Guardia Costiera, Harry Kielhammer, che aveva 10 anni più di lei. Nonostante la nascita di due figli, il matrimonio non fu felice e i due si separarono già nel 1942. Harry ottenne la custodia dei bambini.
Durante la guerra, Barbara esercitò la prostituzione inizialmente presso il porto di Oakland, una importante base militare per la guerra nel Pacifico; successivamente si spostò a Long Beanch, a san Diego e a San Pedro, sempre sulla costa pacifica, venendo puntualmente arrestata e schedata dalla polizia.
Barbara Graham

Dopo la guerra, andò a esercitare sempre lo stesso mestiere, ma stavolta in un bordello, a San Francisco. Il bordello era una istituzione clandestina ma di gran lusso, la cui tenutaria era una certa Sally Stanford, una donna molto attiva socialmente e politicamente grazie ai numerosi agganci che le garantiva questa attività. Il locale era frequentato da artisti soprattutto del cinema e da politici di tutte le correnti. Alla fine, negli anni '70, Sally Stanford sarebbe stata eletta sindaco di Sausalito.
Sally Stanford (1903-82)

Barbara non fu altrettanto fortunata. Finì a frequentare tipi molto poco raccomandabili che la introdussero negli ambienti della droga e del gioco d'azzardo. Si mise di nuovo nei guai testimoniando il falso in favore di due di essi durante un processo e si beccò una condanna a cinque anni che scontò nella prigione statale femminile di Teachapi.
Di nuovo libera, nel 1953, andò a Los Angeles, dove provò a lavorare come inserviente in un ospedale e come cameriera. Sposò un barista, Henry Graham, ed ebbe da lui un altro figlio, Thomas.
Barbara Graham con il marito Henry e il figlio Tommy

Graham era un tossico e uno spacciatore e le fece conoscere altri soggetti ancora meno raccomandabili di quelli frequentati fino a quel momento. Per uno di questi, Emmett Perkins, Barbara lasciò il marito. Perkins era fissato su una vedova sessantaquattrenne di Burbank, Mabel Monohan, che a suo dire teneva in casa grandi quantità di denaro contante e di gioielli, in gran parte frutto delle attività dell'ex genero, Tutor Scherer, noto giocatore d'azzardo di Las Vegas. Perkins formò quindi una banda per entare nella casa della donna e fare il colpo. Oltre a lui e a Barbara, c'erano altri pregiudicati dalla fedina penale lunga chilometri: Jack Santo, John True e Baxter Shorter.
Jack Santo, Emmett Perkins e Barbara Graham

Baxter Shorter

John True

La vittima, Mabel Monahan


La sera del 9 marzo 1953, Barbara si presentò alla casa della donna, chiedendo di poter usare il telefono. Appena la Monahan aprì la porta, spuntarono dal buio gli altri 4 ed entrarono con lei, chiudendosi la porta alle spalle.
Su quanto accadde subito dopo, abbiamo le versioni rilasciate al processo da tutti i diretti interessati tranne due che nel frattempo erano morti. Pare che True, Santo e Perkins picchiarono la Monahan per farle dire dove tenesse nascosti il denaro e i gioielli, ma la donna non parlò. Quando entrò in casa anche Shorter, che avrebbe dovuto aprire la cassaforte, Barbara teneva una pistola in mano ed esortava i suoi complici a colpire più forte. Shorter, nonostante fosse pregiudicato per omicidio, non voleva essere coinvolto in un delitto così stupido e si rivoltò contro gli altri, obbligandoli a smettere di colpire la donna e ad allentare il bavaglio che sembrava sul punto di soffocarla.
La banda mise a soqquadro la casa in cerca della refurtiva, ma non trovò nulla. Per ironia della sorte, nessuno guardò in un armadio che si trovava proprio lì, nel punto dove avevano lasciato la Monahan moribonda, nel quale era custodita una valigia piena di soldi (circa 15.000 dollari).
Quando si resero conto che la Monahan non respirava più, i cinque fuggirono. Una volta rimasto solo, Shorter raggiunse una cabina telefonica e chiamò un'ambulanza per la Monahan, dando l'indirizzo corretto ma dimenticando di precisare che era a Burbank e non a Los Angeles. Infatti, l'ambulanza non arrivò mai a destinazione e il cadavere della Monahan fu scoperto solo due giorni dopo, dal guardiniere che aveva sentito il cane della donna uggiolare dall'interno della casa e aveva scoperto la porta lasciata socchiusa. La polizia mise una taglia di 5000 dollari sui responsabili del delitto.
Già il 26 marzo furono effettuati i primi cinque fermi, tra noti delinquenti della zona. Quattro non c'entravano nulla, ma il quinto era Shorter, che capì subito come la situazione potesse portarlo alla camera a gas e spifferò tutto quanto sapeva sul delitto, affermando di aver fatto solo da palo al resto della banda. Non si sa bene perché, i poliziotti decisero di lasciarlo libero mentre raccoglievano le prove per incastrare gli altri. Inoltre, qualcuno in centrale dovette dire una parola di troppo in giro perché, subito dopo il suo rilascio, Shorter scomparve. Il suo corpo non fu mai ritrovato.
Ma i poliziotti arrivarono lo stesso ai responsabili e li arrestarono nel mese di maggio. Durante gli interrogatori, il primo a cedere fu John True, cui fu proposto un accordo: sarebbe scampato alla pena capitale se si fosse prestato ad accusare gli altri. True non se lo fece ripetere due volte.
Secondo la versione di True, il ruolo di Barbara nel delitto sarebbe stato fondamentale. Sarebbe stata lei a colpire più volte alla testa la Monahan con il calcio della pistola, fino a fratturarle il cranio, e ancora lei le avrebbe coperto la testa con una federa di cuscino, rendendole impossibile la respirazione.
Barbara Graham durante gli interrogatori

In realtà, a parte la testimonianza di True, l'accusa non aveva nulla contro Barbara che, a differenza di Santo e Perkins, non aveva lasciato tracce sulla scena del crimine. Tuttavia, Barbara si complicò la situazione da sola, cadendo in una trappola tesale dalla polizia. Le fecero credere, attraverso una sua compagna di cella cui fu promessa una riduzione della pena, che qualcuno fosse disposto a pagare 25.000 dollari per scagionarla attraverso la falsa testimonianza di un'altra detenuta, che avrebbe giurato di essere stata con lei per tutto il tempo, la notte del delitto. Barbara accettò di incontrare questa falsa testimone e discusse con lei dell'alibi, ammettendo ripetutamente di aver partecipato alla rapina, senza sapere che la donna in realtà era una poliziotta e stava registrando la conversazione.
Una volta ascoltata in aula, la registrazione demolì completamente la credibilità di Barbara, che non fu più creduta da nessuno quando provò a rispondere alle accuse.
Shirley Olson, la poliziotta che incastrò Barbara Graham in carcere

L'opinione pubblica, che l'aveva soprannominata “Bloody Babs”, la detestò da subito, esercitando continue pressioni perché fosse condannata. In questo, c'entra sicuramente anche il fatto che fu assistita da un difensore d'ufficio, poco avvezzo a suggerirle una giusta strategia nel presentarsi. L'essere l'unica donna della banda poteva giocare a suo favore se si fosse mostrata come una figura passiva e facilmente influenzabile, ma Barbara tenne per tutto il processo degli atteggiamenti spavaldi, vestendo in modo vistoso, fumando continuamente e assumendo un atteggiamento polemico con gli accusatori. Quando le chiesero conto del suo tentativo di procurarsi un falso alibi, rispose: “Siete mai stati disperati? Sapete cosa significa non sapere cosa fare?”
Barbara Graham durante il processo

Barbara Graham con l'avvocato d'ufficio, Jack Hardy

Fu condannata a morte insieme a Santo e a Perkins. Passò diversi mesi in un carcere femminile di Chino aspettando l'esito dell'appello, ma la condanna fu confermata. Il 2 giugno 1955 fu trasferita a San Quentin, dove si sarebbe svolta l'esecuzione, tramite camera a gas.
Questa era pianificata per le 10 del mattino seguente ma, per rispondere (negativamente) alle domande di grazia, il governatore Goodwin Knight la posticipò prima alle 10,45 e poi alle 11,30. I rinvii resero Barbara isterica, fino a farle gridare: “Perché continuate a torturarmi?” A fatica, padre Edward Dingbuerg, cappellano cattolico del carcere, riuscì a calmarla. Alle 11,28 fu chiusa nella camera a gas. Si era preparata con eleganza, come per un'uscita serale, ma chiese di essere bendata per non vedere i testimoni dell'esecuzione. Un addetto, Joe Ferretti, le suggerì di trattenere il fiato e poi fare un respiro profondo per abbreviare i tempi, ma lei gli rispose: “E tu come fai a saperlo?”, insultandolo. Le sue ultime parole furono: “Le brave persone sono sempre così sicure di avere ragione”. Alle 11,36 le capsule di cianuro furono sganciate. Barbara si dibatté per qualche minuto, poi sembrò abbandonarsi all'indietro, per poi ricadere in avanti. Alle 11,42 fu dichiarata morta. Fu poi sepolta in un cimitero di San Rafael.
Durante il processo, tra i pochi a sostenere le sue ragioni, c'era stato un personagio tra i meno probabili per una cosa del genere, il giornalista Edward Montgomery del “San Francisco Examiner”. 

Edward S. Montgomery (1910-92), premio Pulitzer 1951 

Montgomery era un falco repubblicano che collaborava con l'FBI, di solito si schierava a favore di pene duramente esemplari per i delinquenti e, in seguito, avrebbe scritto un delirante opuscolo in cui accusava gli studenti contestatori degli anni '60 di essere al soldo dei comunisti russi. Secondo alcune interpretazioni, Montgomery era talmente attratto da Barbara che provò in tutti i modi a salvarla. Non essendoci riuscito, portò allora la sua storia a Walter Wager, un produttore che realizzava spesso film di grande impegno civile e si prestò a collaborare alla sceneggiatura di quello che sarebbe poi diventato il più importante film americano contro la pena capitale, “I want to live”, un vero capolavoro diretto dal grande Robert Wise e interpretato da Susan Hayward, che diede una prova eccezionale e vinse l'Oscar come migliore attrice protagonista nel 1959. Ironia della sorte, anche la Hayward apparteneva politicamente all'area dei falchi repubblicani.




La locandina e tre immagini del film

Il film contiene alcune inesattezze, dovute allo sforzo di presentare la figura di Barbara nel modo più favorevole possibile, ma ricostruisce abbastanza fedelmente la vicenda. Nella sequenza dell'esecuzione, sembra citare un classico del giornalismo americano, la foto scattata da Tom Howard con la fotocamera legata alla caviglia per nasconderla alle guardie, durante l'esecuzione sulla sedia elettrica dell'uxoricida Rurh Brown Snyder, il 12 gennaio 1928 a New York.

L'esecuzione nel film

L'esecuzione di Ruth Brown Snyder






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