Una persona dal destino segnato, reso
evidente sin dalla nascita: ma questo destino prenderà la forma di
un caso giudiziario che, grazie anche alla cassa di risonanza dei
mass media, avrà un enorme seguito di pubblico.
Non è una storia di oggi, ma di molto
tempo fa. Alla protagonista, se fosse viva, mancherebbe poco per
diventare centenaria. Invece, visse poco meno di 32 anni.
Nacque come Barbara Elaine Ford il 26
giugno 1923 a Oakland, California, figlia della prostituta
diciassettenne Hortense Ford, di origine portoghese (il nome
originario era Furtado) e di un padre rimasto sempre sconosciuto.
Dopo un anno e mezzo, nel 1925, da un altro uomo, la madre ebbe
un'altra figlia, Claire; poi sposò un certo Joseph Wood e nel 1930
ebbe un terzo figlio, chiamato anche lui Joseph. Alla nascita del
bambino, però, il padre era già morto e la madre non poté fare
altro che riprendere la sua vita di prima, entrando e uscendo di
galera.
Hortense Ford negli anni '50, con il nipote Tommy
Barbara fu separata dalla madre per la
prima volta poco dopo la nascita della sorella, quando la donna finì
in carcere e finì allevata da estranei che si curarono poco di lei,
ragione per cui ebbe un'istruzione limitata e finì presto per
mettersi nei guai. Appena entrata nell'adolescenza, si ritrovò
condannata al riformatorio per vagabondaggio e fu rinchiusa nello
stesso istituto correzionale in cui era stata più volte reclusa
anche la madre, il Ventura State School for Girls, dove restò fino
al 1939.
Uscita dal riformatorio, benché avesse
solo 16 anni, sposò un marinaio della Guardia Costiera, Harry
Kielhammer, che aveva 10 anni più di lei. Nonostante la nascita di
due figli, il matrimonio non fu felice e i due si separarono già nel
1942. Harry ottenne la custodia dei bambini.
Durante la guerra, Barbara esercitò la
prostituzione inizialmente presso il porto di Oakland, una importante
base militare per la guerra nel Pacifico; successivamente si spostò
a Long Beanch, a san Diego e a San Pedro, sempre sulla costa
pacifica, venendo puntualmente arrestata e schedata dalla polizia.
Barbara Graham
Dopo la guerra, andò a esercitare
sempre lo stesso mestiere, ma stavolta in un bordello, a San
Francisco. Il bordello era una istituzione clandestina ma di gran
lusso, la cui tenutaria era una certa Sally Stanford, una donna molto
attiva socialmente e politicamente grazie ai numerosi agganci che le
garantiva questa attività. Il locale era frequentato da artisti
soprattutto del cinema e da politici di tutte le correnti. Alla fine,
negli anni '70, Sally Stanford sarebbe stata eletta sindaco di
Sausalito.
Sally Stanford (1903-82)
Barbara non fu altrettanto fortunata.
Finì a frequentare tipi molto poco raccomandabili che la
introdussero negli ambienti della droga e del gioco d'azzardo. Si
mise di nuovo nei guai testimoniando il falso in favore di due di
essi durante un processo e si beccò una condanna a cinque anni che
scontò nella prigione statale femminile di Teachapi.
Di nuovo libera, nel 1953, andò a Los
Angeles, dove provò a lavorare come inserviente in un ospedale e
come cameriera. Sposò un barista, Henry Graham, ed ebbe da lui un
altro figlio, Thomas.
Barbara Graham con il marito Henry e il figlio Tommy
Graham era un tossico e uno spacciatore
e le fece conoscere altri soggetti ancora meno raccomandabili di
quelli frequentati fino a quel momento. Per uno di questi, Emmett
Perkins, Barbara lasciò il marito. Perkins era fissato su una vedova
sessantaquattrenne di Burbank, Mabel Monohan, che a suo dire teneva
in casa grandi quantità di denaro contante e di gioielli, in gran
parte frutto delle attività dell'ex genero, Tutor Scherer, noto
giocatore d'azzardo di Las Vegas. Perkins formò quindi una banda per
entare nella casa della donna e fare il colpo. Oltre a lui e a
Barbara, c'erano altri pregiudicati dalla fedina penale lunga
chilometri: Jack Santo, John True e Baxter Shorter.
Jack Santo, Emmett Perkins e Barbara Graham
Baxter Shorter
John True
La vittima, Mabel Monahan
La sera del 9 marzo 1953, Barbara si
presentò alla casa della donna, chiedendo di poter usare il
telefono. Appena la Monahan aprì la porta, spuntarono dal buio gli
altri 4 ed entrarono con lei, chiudendosi la porta alle spalle.
Su quanto accadde subito dopo, abbiamo
le versioni rilasciate al processo da tutti i diretti interessati
tranne due che nel frattempo erano morti. Pare che True, Santo e
Perkins picchiarono la Monahan per farle dire dove tenesse nascosti
il denaro e i gioielli, ma la donna non parlò. Quando entrò in casa
anche Shorter, che avrebbe dovuto aprire la cassaforte, Barbara
teneva una pistola in mano ed esortava i suoi complici a colpire più
forte. Shorter, nonostante fosse pregiudicato per omicidio, non
voleva essere coinvolto in un delitto così stupido e si rivoltò
contro gli altri, obbligandoli a smettere di colpire la donna e ad
allentare il bavaglio che sembrava sul punto di soffocarla.
La banda mise a soqquadro la casa in
cerca della refurtiva, ma non trovò nulla. Per ironia della sorte,
nessuno guardò in un armadio che si trovava proprio lì, nel punto
dove avevano lasciato la Monahan moribonda, nel quale era custodita
una valigia piena di soldi (circa 15.000 dollari).
Quando si resero conto che la Monahan
non respirava più, i cinque fuggirono. Una volta rimasto solo,
Shorter raggiunse una cabina telefonica e chiamò un'ambulanza per la
Monahan, dando l'indirizzo corretto ma dimenticando di precisare che
era a Burbank e non a Los Angeles. Infatti, l'ambulanza non arrivò
mai a destinazione e il cadavere della Monahan fu scoperto solo due
giorni dopo, dal guardiniere che aveva sentito il cane della donna
uggiolare dall'interno della casa e aveva scoperto la porta lasciata
socchiusa. La polizia mise una taglia di 5000 dollari sui
responsabili del delitto.
Già il 26 marzo furono effettuati i
primi cinque fermi, tra noti delinquenti della zona. Quattro non
c'entravano nulla, ma il quinto era Shorter, che capì subito come la
situazione potesse portarlo alla camera a gas e spifferò tutto
quanto sapeva sul delitto, affermando di aver fatto solo da palo al
resto della banda. Non si sa bene perché, i poliziotti decisero di
lasciarlo libero mentre raccoglievano le prove per incastrare gli
altri. Inoltre, qualcuno in centrale dovette dire una parola di
troppo in giro perché, subito dopo il suo rilascio, Shorter
scomparve. Il suo corpo non fu mai ritrovato.
Ma i poliziotti arrivarono lo stesso ai
responsabili e li arrestarono nel mese di maggio. Durante gli
interrogatori, il primo a cedere fu John True, cui fu proposto un
accordo: sarebbe scampato alla pena capitale se si fosse prestato ad
accusare gli altri. True non se lo fece ripetere due volte.
Secondo la versione di True, il ruolo
di Barbara nel delitto sarebbe stato fondamentale. Sarebbe stata lei
a colpire più volte alla testa la Monahan con il calcio della
pistola, fino a fratturarle il cranio, e ancora lei le avrebbe
coperto la testa con una federa di cuscino, rendendole impossibile la
respirazione.
Barbara Graham durante gli interrogatori
In realtà, a parte la testimonianza di
True, l'accusa non aveva nulla contro Barbara che, a differenza di
Santo e Perkins, non aveva lasciato tracce sulla scena del crimine.
Tuttavia, Barbara si complicò la situazione da sola, cadendo in una
trappola tesale dalla polizia. Le fecero credere, attraverso una sua
compagna di cella cui fu promessa una riduzione della pena, che
qualcuno fosse disposto a pagare 25.000 dollari per scagionarla
attraverso la falsa testimonianza di un'altra detenuta, che avrebbe
giurato di essere stata con lei per tutto il tempo, la notte del
delitto. Barbara accettò di incontrare questa falsa testimone e
discusse con lei dell'alibi, ammettendo ripetutamente di aver
partecipato alla rapina, senza sapere che la donna in realtà era una
poliziotta e stava registrando la conversazione.
Una volta ascoltata in aula, la
registrazione demolì completamente la credibilità di Barbara, che
non fu più creduta da nessuno quando provò a rispondere alle
accuse.
Shirley Olson, la poliziotta che incastrò Barbara Graham in carcere
L'opinione pubblica, che l'aveva
soprannominata “Bloody Babs”, la detestò da subito, esercitando
continue pressioni perché fosse condannata. In questo, c'entra
sicuramente anche il fatto che fu assistita da un difensore
d'ufficio, poco avvezzo a suggerirle una giusta strategia nel
presentarsi. L'essere l'unica donna della banda poteva giocare a suo
favore se si fosse mostrata come una figura passiva e facilmente
influenzabile, ma Barbara tenne per tutto il processo degli
atteggiamenti spavaldi, vestendo in modo vistoso, fumando
continuamente e assumendo un atteggiamento polemico con gli
accusatori. Quando le chiesero conto del suo tentativo di procurarsi
un falso alibi, rispose: “Siete mai stati disperati? Sapete cosa
significa non sapere cosa fare?”
Barbara Graham durante il processo
Barbara Graham con l'avvocato d'ufficio, Jack Hardy
Fu condannata a morte insieme a Santo e
a Perkins. Passò diversi mesi in un carcere femminile di Chino
aspettando l'esito dell'appello, ma la condanna fu confermata. Il 2
giugno 1955 fu trasferita a San Quentin, dove si sarebbe svolta
l'esecuzione, tramite camera a gas.
Questa era pianificata per le 10 del
mattino seguente ma, per rispondere (negativamente) alle domande di
grazia, il governatore Goodwin Knight la posticipò prima alle 10,45
e poi alle 11,30. I rinvii resero Barbara isterica, fino a farle
gridare: “Perché continuate a torturarmi?” A fatica, padre
Edward Dingbuerg, cappellano cattolico del carcere, riuscì a
calmarla. Alle 11,28 fu chiusa nella camera a gas. Si era preparata
con eleganza, come per un'uscita serale, ma chiese di essere bendata
per non vedere i testimoni dell'esecuzione. Un addetto, Joe Ferretti,
le suggerì di trattenere il fiato e poi fare un respiro profondo per
abbreviare i tempi, ma lei gli rispose: “E tu come fai a saperlo?”,
insultandolo. Le sue ultime parole furono: “Le brave persone sono
sempre così sicure di avere ragione”. Alle 11,36 le capsule di
cianuro furono sganciate. Barbara si dibatté per qualche minuto, poi
sembrò abbandonarsi all'indietro, per poi ricadere in avanti. Alle
11,42 fu dichiarata morta. Fu poi sepolta in un cimitero di San
Rafael.
Durante il processo, tra i pochi a
sostenere le sue ragioni, c'era stato un personagio tra i meno
probabili per una cosa del genere, il giornalista Edward Montgomery
del “San Francisco Examiner”.
Edward S. Montgomery (1910-92), premio Pulitzer 1951
Montgomery era un falco
repubblicano che collaborava con l'FBI, di solito si schierava a
favore di pene duramente esemplari per i delinquenti e, in seguito,
avrebbe scritto un delirante opuscolo in cui accusava gli studenti
contestatori degli anni '60 di essere al soldo dei comunisti russi.
Secondo alcune interpretazioni, Montgomery era talmente attratto da
Barbara che provò in tutti i modi a salvarla. Non essendoci
riuscito, portò allora la sua storia a Walter Wager, un produttore
che realizzava spesso film di grande impegno civile e si prestò a
collaborare alla sceneggiatura di quello che sarebbe poi diventato il
più importante film americano contro la pena capitale, “I want to
live”, un vero capolavoro diretto dal grande Robert Wise e
interpretato da Susan Hayward, che diede una prova eccezionale e
vinse l'Oscar come migliore attrice protagonista nel 1959. Ironia
della sorte, anche la Hayward apparteneva politicamente all'area dei
falchi repubblicani.
La locandina e tre immagini del film
Il film contiene alcune inesattezze,
dovute allo sforzo di presentare la figura di Barbara nel modo più
favorevole possibile, ma ricostruisce abbastanza fedelmente la
vicenda. Nella sequenza dell'esecuzione, sembra citare un classico
del giornalismo americano, la foto scattata da Tom Howard con la
fotocamera legata alla caviglia per nasconderla alle guardie, durante
l'esecuzione sulla sedia elettrica dell'uxoricida Rurh Brown Snyder,
il 12 gennaio 1928 a New York.
L'esecuzione nel film
L'esecuzione di Ruth Brown Snyder
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