Per i lettori
contemporanei, abituati ai grandi successi dei giallisti italiani
(Camilleri e Lucarelli su tutti, senza dimenticare Fois, Filastò,
Trevisan e tutti gli altri), sarà difficile credere che, non più
tardi di qualche decennio fa, il giallo made in Italy
attraversò un periodo di crisi nera che rischiò di portarlo
all’estinzione, almeno a livello del grande pubblico. Negli anni
’50, infatti, la già esigua presenza di autori italiani nelle
principali collane poliziesche si ridusse gradualmente al punto che,
per circa un decennio, nessun romanzo italiano venne pubblicato in
esse.
Il giallo italiano
non aveva mai avuto vita facile. Anche se già dalla fine del XIX
secolo erano stati pubblicati romanzi italiani basati su storie di
delitti e indagini, la sua nascita ufficiale è datata, per opinione
generalmente diffusa, con il 1931, anno in cui uscì Il sette
bello di Alessandro Varaldo, un commediografo di grande successo
che fu spinto dall'editore Arnoldo Mondadori a tentare una nuova
avventura.
Si era in pieno
periodo fascista, quando il potere costituito esercitava una pesante
influenza sull’orientamento degli autori e del pubblico. L’organo
ufficiale che si occupava di libri, il famoso Minculpop, impose ai
giallisti italiani una serie di regole-capestro affinché le trame
dei romanzi non interferissero con l’indottrinamento sistematico
che si infliggeva soprattutto ai giovani. E’ facile immaginare
quanto risultassero poco gradite, a un regime che sbandierava tra le
sue conquiste l’eradicazione della malavita e la soddisfazione di
tutta la popolazione, delle storie piene di criminali incalliti,
pezzi grossi corrotti, famiglie sfasciate e ogni esempio di persone
insoddisfatte e frustrate sotto la facciata della rispettabilità. Fu
quindi ordinato, sotto pena del sequestro, di ambientare le trame
all’estero oppure tra stranieri di passaggio in Italia; in ogni
caso, i colpevoli di qualsiasi reato potevano essere solo stranieri.
Inoltre, era vietato anche solo menzionare il suicidio: si
arrivò all’assurdità di obbligare i traduttori a “trasformare”
i suicidi in incidenti anche nelle opere straniere.
Malgrado queste
imposizioni (le quali, più che all’oppressione totalitaristica,
fanno pensare a un’assoluta mancanza di senso del ridicolo,
peraltro tipica dell'intero modo di pensare fascista), molti autori
italiani (Augusto De Angelis, Ezio D’Errico, Alessandro Varaldo,
Vasco Mariotti, Armando Comez, Tito A. Spagnol e altri, in gran parte
provenienti dal teatro o dal giornalismo) riuscirono a scrivere
romanzi che non avevano nulla da invidiare a quelli degli stranieri
loro contemporanei. Il commissario Ascanio Bonichi e il detective
Gino Arrighi, creati da Varaldo, risentono un po' dello sforzo di
italianizzare a forza il genere, anche a costo di scadere nel cliché
(è possibile, a giudicare dal nome, che il primo possa rappresentare
una sorta di omaggio al capo della polizia fascista, il prefetto
Arturo Bocchini). Ma il lettore moderno, se ha la fortuna di leggere
i romanzi di allora, resta sbalordito nello scoprire come il Don
Poldo, sacerdote detective di Spagnol, non sia una banale imitazione
del Padre Brown di Chesterton, ma un personaggio originale e spesso
sorprendente. Il commissario Emile Richard della Sureté,
protagonista dei romanzi di ambientazione parigina di D'Errico, può
competere addirittura con il leggendario Maigret di Simenon. Il
personaggio più importante, però, è il malinconico commissario
milanese Carlo De Vincenzi, creato da De Angelis, per il quale non
esistono Bene a Male assoluti ma ogni delitto trova una spiegazione
negli istinti della mente umana: non a caso, Freud è citato
spessissimo (anche i riferimenti alla cultura ebraica sono
significativi, specie nel romanzo Il candeliere a sette fiamme,
del 1936. Sebbene De Angelis sia stato un antifascista, non si deve
vedere in questa scelta un intento polemico. Infatti, come ricorda
Eucardio Momigliano in Storia tragica e grottesca
dell'antisemitismo fascista, fino a poche settimane prima
dell'alleanza con la Germania nel 1938, Mussolini dichiarava
espressamente la sua volontà di proteggere gli ebrei italiani ed
europei contro ogni discriminazione e persecuzione).
Un Giallo Mondadori anteguerra di Tito A. Spagnol
Uno dei circa 20 gialli pubblicati da De Angelis con diversi editori
L'ultimo Giallo Mondadori pubblicato prima dell'ukaze del Minculpop nel 1941
Negli anni '30-'40, Nerbini fu particolarmente attivo nella pubblicazione di gialli
Ma il Minculpop
era pieno di gente che pretendeva di imporre modelli culturali anche
se non era in grado di distinguere un libro da una scatola piatta, e
non li ebbe mai in simpatia. Spesso il romanzo giallo fu attaccato,
non solo in quanto “diseducativo”, ma anche perché tipicamente
anglosassone. Uno zelante intellettuale di regime il cui nome non è
stato purtroppo tramandato, raggiunse le massime vette di umorismo
involontario proponendo, dalle colonne della celebre rivista
letteraria “Il Bargello”, di dotare le traduzioni italiane di
gialli stranieri di una fascetta con su scritto “Usi e costumi
della polizia e della giustizia non sono italiani. In Italia,
giustizia e pubblica sicurezza, sono cose serie”. Finché,
nell’estate del 1943, prendendo spunto da un insulso fatto di
cronaca (un maldestro furto compiuto da alcuni studenti che, una
volta scoperti, dichiararono di essersi ispirati a un romanzo
giallo), il Minculpop vietò la pubblicazione di ogni tipo di romanzi
polizieschi in Italia, disponendo, al tempo stesso, il sequestro di
quelli già pubblicati. Inutilmente, De Angelis, famoso anche come
giornalista, si oppose a nome della categoria con parole che, dietro
la raffinata ironia, erano piene di serietà e buon senso: “Il
romanzo giallo può indurre ad delitto? Non lo credo. Ma, ad ogni
modo, per la stessa ragione e con la medesima forza, i romanzi di
Bourget possono spingere le mogli all'adulterio; quelli di Prévost,
le fanciulle alla perversione; quelli di Zola, gli uomini
all'abbrutimento. E perché non dire che le commedie di Pirandello
potrebbero dolcemente, insensibilmente, per un vialetto di rose e
anemoni, condurre qualcuno alla follia?”.
Purtroppo, erano
tempi da cui la serietà e il buon senso erano definitivamente
banditi.
Dopo la guerra, i
giallisti italiani ripresero la loro attività. Mancava però
all’appello il più importante tra loro: Augusto De Angelis, che
risiedeva in Lombardia, dopo il 25 luglio 1943, era stato incarcerato
con l'accusa di antifascismo. Uscito dalla galera in precarie
condizioni di salute, mentre si trovava in strada a Bellagio, nel
Comasco, fu avvicinato dalla donna che lo aveva denunciato che,
pentita del suo gesto, cercò di scusarsi; mentre i due parlavano tra
loro, senza animosità, intervenne un milite repubblichino, forse
legato alla donna, e senza alcuna ragione prese a picchiare lo
scrittore con pugni e calci, fino a causarne la morte. Era il 18
luglio 1944 e il delitto sarebbe rimasto impunito, come troppi altri
di quel tempo: De Angelis aveva appena compiuto 56 anni.
Intanto, il gusto
del pubblico era mutato: l’arrivo degli americani e la
colonizzazione culturale che ne era seguita, avevano spazzato
via tutto ciò che apparteneva al passato, senza andare tanto per il
sottile. Per gli spettatori abituati a vedere film di propaganda o
commediole del tipo telefoni bianchi, la riscoperta del cinema
hollywoodiano dovette essere una vera rivoluzione; mentre, ai
lettori, le traduzioni delle opere d’oltre Atlantico
rappresentarono un enorme allargamento degli orizzonti: in più,
rispetto al cinema, i romanzi americani non erano neppure soggetti a
censure preventive come il Codice Hays. Questa situazione
permise la scoperta di giallisti (autori del genere thriller,
fondamentalmente diverso dai romanzi mystery fino ad
allora noti) che erano anche ottimi scrittori (Hammett, Chandler,
Cain, McCoy, Macdonald, Fearing, Fischer, etc.), ma anche
l’importazione indiscriminata di ogni sorta di ciarpame, purché
rispondesse a quelli che erano presto diventati gli stereotipi del
genere (sesso & violenza & sparatorie & scazzottate,
etc.). D’altro canto, i nostalgici del mystery classico
preferirono rivolgere la loro attenzione a romanzi inglesi di stampo
antiquato, pieni di delitti compiuti con armi del genere pistole
intarsiate, curaro e pesci tropicali (secondo la beffarda
definizione di Raymond Chandler) e ambientati tra improbabili
castelli o residenze aristocratiche.
Gli scrittori
italiani non potevano aderire a nessuno di questi due modelli senza
coprirsi di ridicolo: e, infatti, i loro migliori romanzi appaiono
oggi di una originalità e di una qualità letteraria molto superiore
alla media di quelli stranieri. Ma la loro bravura rappresentava,
agli occhi del pubblico, anche il loro limite: le storie che
raccontavano apparivano troppo prossime alla realtà per risultare
gradite; pertanto, vennero emarginati. A titolo di esempio, il
giallista italiano più fecondo del periodo, Ezio D’Errico, quello
dei romanzi ambientati a Parigi, fu capace di inanellare sette titoli
tra il 1940 e il 1941, ma nel dopoguerra riuscì a pubblicare un solo
libro (in seguito, ritornò al teatro, ottenendo diversi successi).
L'unico romanzo di D'Errico pubblicato nel nuovo Giallo Mondadori
La principale
collana gialla italiana, quella di Mondadori, risorta nel 1946,
pubblicò un solo romanzo italiano (proprio quello di D’Errico) nei
primi 336 numeri (fino al 1955): nella collana anteguerra (1929-41),
i titoli italiani erano stati 39 su 266 numeri! In seguito, i
responsabili della collana effettuarono un generoso tentativo di
riproporre qualche autore di casa nostra: tra i numeri 337 (Il
sepolcro di carta di Sergio Donati) e 416 (quest’ultimo,
Viatico per Marianna di Franco Enna, è del 1957) uscirono ben
undici titoli italiani, proponendo tra l'altro gli originalissimi
romanzi di Giuseppe Ciabattini, un anziano autore di teatro che
inventò una coppia di detectives formata da due clochards milanesi,
Tre Soldi e Boero, una sorta di Holmes e Watson poveri, che
anticipavano Camilleri e Montalbano con il loro particolare slang.
Tuttavia, il pubblico rispose molto male: le vendite calavano
drasticamente se il romanzo era italiano, e l’editore si regolò di
conseguenza. Nessun giallo italiano sarebbe più stato pubblicato nei
“Gialli Mondadori” per oltre vent’anni.
Oltre a quella
mondadoriana, gli appassionati del genere avevano a disposizione non
poche collane di un certo livello: di alcune (degli editori Giumar,
Aurora, Casini, Ciardi, etc.) si è persa quasi ogni traccia; altre
(quelle di Feltrinelli e, molto tempo più tardi, di Rizzoli) sono
sopravvissute, purtroppo, per pochissimo; due che invece sono durate
a lungo, anche rinnovandosi più volte, sono state quelle di
Longanesi e Garzanti. E’ significativo, comunque, come in quasi
tutte queste collane, che si distinguevano dagli albi di serie B sia
per la migliore scelta delle opere da pubblicare, sia per la maggiore
cura delle pubblicazioni stesse, non abbiano mai dato spazio ad
autori italiani, con una sola (ma importantissima) eccezione, che
vedremo tra poco.
In controtendenza
rispetto alle altre, fu solo la Casini ad aprire improvvisamente uno
spazio ad autori italiani nella sua collana “I gialli del Secolo”,
che però era già avviata alla crisi e all'estinzione. Qui, uscirono
romanzi firmati da una Antonia Bullotta mai più rivista o risentita
e da un criminologo di professione, Giovanni Marti.
Nonostante questa
situazione tutt'altro che favorevole, ancora fino alla fine degli
anni '50, i giallisti italiani dovettero ancora sopportare una serie
di attacchi da parte della stampa di estrema destra, che a ogni
minima occasione rivolgeva loro la delirante accusa di “fornire
idee ai criminali” (in un Paese in cui si leggevano ancora
pochissimi libri e c'erano ancora molti analfabeti). L'offensiva si
scatenò in particolare nel 1958 dopo il “delitto di via Fontanesi”
a Torino, opera di uno psicopatico che sembrava essersi ispirato al
protagonista di un giallo italiano, Uccidevano di notte,
pubblicato dal giornalista Italo Fasan con lo pseudonimo Byll
Skyline. Per fortuna, dai tempi del ventennio, il vento era cambiato
e i novelli censori si stracciarono le vesti inutilmente.
Uno scrittore
italiano che volesse dedicarsi al giallo, per lungo tempo, ebbe
davanti a sé solo due possibilità: o scimmiottare i peggiori
modelli americani per pubblicare qualcosa in collane senza la minima
pretesa e al limite della pornografia (spesso nascondendosi dietro
pseudonimi americaneggianti).
Questo romanzo è sicuramente di Franco Enna, ma sfugge a quasi tutte le ricostruzioni della sua opera omnia per via di un refuso in copertina (lo pseudonimo che usava spesso in questi casi è Lislie Chambers e non Leslie)
Conrad A. Roberts è lo pseudonimo utilizzato più spesso da Enna
Questo romanzo è sicuramente di autore italiano, che però non è stato ancora identificato
Lo stesso dicasi per questo. Notare come le immagini di copertina, volendo imitare quelle americane senza disporre degli stessi mezzi, appaiano oggi un po' ridicole
Questo è di Dino De Rugeriis
Oppure sfruttare una fama già
acquisita quale autore di narrativa tout court per compiere
qualche excursus nel genere: tra i risultati di questo genere,
particolarmente rimarchevole è I giovedì della signora Giulia
(1970), con cui Piero Chiara compie a ritroso il cammino
effettuato da Mario Soldati (I racconti del maresciallo) due
anni prima: nel caso di Soldati, un’opera narrativa si era
trasformata nella sceneggiatura di una serie televisiva (interpretata
dall’ottimo Turi Ferro); Chiara, invece, dopo aver scritto la
sceneggiatura di un originale televisivo, la sviluppa in un romanzo
(in un certo senso, può essere considerato un antesignano della
novelization, una pratica che, più tardi, prenderà piede a
Hollywood).
Un caso a parte fu quello di Leonardo Sciascia, che si
servì ripetutamente del modello del romanzo giallo per
denunciare in modo incisivo le collusioni del potere costituito con
la delinquenza organizzata. Sciascia, che nessun critico avrebbe mai
mescolato ai gialli ordinari, era invece un grande conoscitore ed
amatore del genere: durante gli anni '70 e '80 avrebbe segnalato
diversi capolavori ormai dimenticati, spesso letti in edizioni
approssimative e raffazzonate, a Elvira Sellerio, che li avrebbe poi
ripubblicati con la sua casa editrice.
Gli anni ’60
portarono un significativo cambiamento nell’atteggiamento del
pubblico italiano. Sicuramente, l’impegno contestatario dei
movimenti giovanili e delle organizzazioni culturali di tutto il
mondo per l’emancipazione generale, portò ad una maggiore
consapevolezza di tutti i consumatori di mass media. Il
pubblico cinematografico dimostrò di essere diventato maggiorenne
quando pretese ed ottenne l’abolizione delle censure preventive
come il Codice Hays. Il cinema, non più costretto a inseguire
ipocriti moralismi, poté guardare con occhio critico e lucido alla
realtà (come aveva già fatto, in molti casi, anche prima, ma a
prezzo di una continua persecuzione). La nuova tendenza si rifletté
presto sulla letteratura di largo consumo. Gradualmente, si impose
l’idea di un romanzo giallo meno spettacolare e più vicino alla
realtà quotidiana: in pratica, il modello che avevano perseguito i
nostri migliori scrittori e che era stato spodestato da quello più
vicino al gusto cinematografico impostosi nel dopoguerra. Nel 1970 si
ha la prima traduzione italiana di un romanzo di Ruth Rendell (Il
mio peggiore amico), la scrittrice inglese destinata a rivelarsi
la regina del giallo ambientato nella vita di tutti i giorni. Al
tempo stesso, le collane più prestigiose diminuirono la quota di
autori americani (privilegiando, tra questi, i romanzi più vicini al
tipo realistico) per aprirsi maggiormente a quelli europei: non solo
inglesi ma, ad esempio, scandinavi e poi, finalmente, italiani.
La maggiore
trasformazione si compì proprio ad opera di una delle case editrici
più refrattarie alla pubblicazione dei gialli italiani, la Garzanti.
Fino alla metà degli anni ’60, pur gestendo tre versioni della sua
prestigiosa collana (I Gialli Garzanti, che nella versione anni ’50,
quella delle tre scimmiette, sono ambitissimi dai
collezionisti) non aveva mai pubblicato un romanzo italiano. Poi
avvenne il miracolo, con la riscoperta di Giorgio Scerbanenco: dal
1966, i suoi gialli, italiani al cento per cento, cominciarono a
uscire uno dietro l’altro, incontrando un immenso favore presso il
pubblico, anche all'estero.
Gli anni ’70
soprattutto segnano la rinascita della narrativa “gialla”
italiana dopo un periodo di grave crisi, che aveva condotto il genere
al limite della scomparsa, almeno a livello di grande pubblico. Tale
rinascita si deve, fondamentalmente, a tre fattori:
il primo è la
graduale presa di coscienza del pubblico dei lettori, che scoprono di
poter affrontare anche attraverso della narrativa di intrattenimento
(purché di buona qualità), una serie di argomenti e problemi
caratteristici della vita di tutti i giorni. In precedenza, gli
autori “gialli” italiani erano stati emarginati perché non
risultavano in grado di fornire al pubblico le emozioni forti del
thriller all’americana (sesso, violenza, sparatorie,
inseguimenti, etc.) e neppure potevano offrire una cornice credibile
a intrecci complessi come quelli del mystery all’inglese
(castelli e dimore aristocratiche, investigatori improvvisati, etc.).
Il “realismo quotidiano”, per lungo tempo limite delle storie
ambientate in Italia, diventa, in questa nuova prospettiva, un punto
di forza (e si afferma, nello stesso periodo, in tutto il mondo);
il secondo è,
come già detto, il successo, anche internazionale, dei romanzi di
Giorgio Scerbanenco, autore di grande talento ed esperienza
(particolarmente noto, come giornalista, con lo pseudonimo di
“Adrian”) che, verso la fine della sua vita (muore nel 1969),
pubblica una serie di romanzi e racconti ambientati a Milano (il
ciclo di Duca Lamberti, ma non solo), lucidissimi senza essere
cinici, che fanno intuire, come mai nessuno prima, le potenzialità
del genere;
il terzo è dato
dall’influenza del mezzo televisivo che, lungi dall’essere
l’orrenda bolgia di cattivo gusto cui siamo abituati oggi,
contribuisce in modo determinante all’alfabetizzazione culturale
del pubblico. La TV produce e trasmette spesso degli “originali
televisivi” gialli autarchici ma di altissimo livello (memorabile
Il cappello del prete da un romanzo ottocentesco di Emilio De
Marchi, protagonista il grande e sfortunato Luigi Vannucchi, poi
quelli di Chiara e Soldati già trattati), grazie ai quali anche i
libri vengono “sdoganati”.
Il primo segno del
cambiamento è la rinnovata attenzione dei maggiori editori verso gli
autori di casa nostra, fino allora quasi sempre ignorati. Negli
ultimi numeri della sua gloriosa “terza serie” di gialli (volumi
rilegati, dalla copertina giallo e violetto), la Garzanti pubblica,
insieme a Scerbanenco, anche alcuni romanzi scritti a quattro mani da
Massimo Felisatti e Fabio Pittorru, del ciclo Qui squadra mobile,
destinato anche a diventare un’eccellente serie televisiva
caratterizzata dall’ambientazione minimalista e dall’estrema
attenzione alla psicologia dei personaggi (sul tipo di La squadra,
per intenderci); più tardi, esaurita la “terza serie”, la
Garzanti lancia nel 1972 una “quarta serie” di gialli
(tascabili), in cui trovano spazio, tra le altre cose, le ristampe di
Scerbanenco e Felisatti-Pittorru; un gruppo di autori nuovi come
Loriano Macchiavelli, Secondo Signoroni, Anna Maria Fontebasso,
Luciana Attoli, Ruggero Ruggieri, Lamberto Benvenuti; la riedizione,
a trent’anni di distanza, dei romanzi di Augusto De Angelis, il
grande giallista del periodo anteguerra. L’edizione Garzanti dei
romanzi di De Angelis (il ciclo del Commissario De Vincenzi) precede
la messa in onda di una serie di sceneggiati ricavati da questi
(interpretati dall’indimenticabile Paolo Stoppa); agli sceneggiati
seguono ulteriori ristampe, stavolta ad opera di Feltrinelli e di
Sonzogno.
Notare le particolari copertine, opera di Fulvio Bianconi
Un altro editore
che, all’inizio degli anni ’70, si apre al giallo italiano, è
Longanesi. Nella sua collezione di Gialli, dal 1970 in poi, trovano
spazio diversi romanzi di Franco Enna, il più fecondo e poliedrico
scrittore italiano del dopoguerra. Già attivo negli anni ’50,
Enna, durante il periodo della “lunga eclissi”, aveva continuato
a pubblicare (come diversi suoi colleghi) in collane effimere di
editori poco noti, nascondendosi quasi sempre dietro improbabili
pseudonimi americaneggianti. Finalmente, tornato a pubblicare con il
suo vero nome, vara due serie che incontrano subito il favore dei
lettori: quella del commissario Sartori e quella del maresciallo Lo
Cascio (una dedicata a un poliziotto e una a un carabiniere: sarà
forse per par condicio?). Inoltre, alcuni gialli italiani
trovano spazio nella famosa collana di tascabili della Longanesi, “I
Libri Pocket”: per esempio Morte di un senatore di Giuseppe
Bonura (1978) e Qui
commissariato di zona di Secondo Signoroni (1978).
Questo romanzo era già uscito due volte in altre edizioni con titoli diversi, firmato sempre Herbert Masson. Alla Longanesi, avevano il brutto vizio di riproporre vecchi romanzi con nuovi titoli e dietro nuovi pseudonimi, presumibilmente con grande fastidio dei lettori
Anche questo è un Franco Enna già uscito presso altri editori con altro titolo e altro pseudonimo
Lo stesso vale per questo
Questo, invece, è un romanzo nuovo e originale
Simbolicamente, il
successo più grande dei giallisti italiani in questo periodo è
l’abbattimento del tabù che li voleva definitivamente esclusi
dalla più prestigiosa collana italiana, i Gialli Mondadori;
l’ultima volta che vi erano stati pubblicati risaliva al 1957, con
il n° 416 della serie (Viatico per Marianna, di Franco Enna):
dopo venti anni e oltre mille numeri, nel 1977 esce il n° 1477 della
serie, Petrosino e i baffi a manubrio, di Secondo Signoroni
(vincitore, nel 1976, del concorso “Gran Giallo” per inediti
bandito dal comune di Cattolica). La collaborazione con le iniziative
della città di Cattolica (che, nel 1973, ha istituito i premi “Gran
Giallo” per romanzi editi e inediti e, successivamente, ospiterà
il “Mystfest”), porta la Mondadori a pubblicare anche il romanzo
vincitore dell’ultima edizione del premio “Gran Giallo” (Ve
lo assicuro io, di Alberto Eva, che vince nel 1978 ma uscirà
solo nel 1980) e a istituire, a sua volta, un premio dedicato alla
memoria del più importante direttore dei “Gialli Mondadori”, il
“Premio Alberto Tedeschi”. Nella prima edizione (1979-80),
l’”Alberto Tedeschi” viene attribuito a un romanzo già edito
di Loriano Macchiavelli (Sarti Antonio: un diavolo per capello)
e all’inedito Vado, contrabbando i diamanti e torno, di
Carla Fioravanti Bosi. Entrambi questi romanzi escono nel “Giallo
Mondadori”, così come, in seguito, tutti gli altri vincitori del
premio.
L’impegno della Mondadori non si ferma qui: nel 1977, in una collana denominata “Gialli Italiani Mondadori”, ristampa una serie di titoli risalenti agli anni ’30 (firmati Varaldo, Spagnol, Mariotti, D’Errico, etc.) e al dopoguerra; il progetto non durerà a lungo (poco più di un anno), ma darà modo al pubblico di scoprire alcuni autori di quello che, malgrado le assurde limitazioni imposte dalla propaganda fascista, era stato il periodo d’oro del giallo italiano.
Altri editori
provano a lanciare collane gialle più o meno ambiziose, specie
Rizzoli, con gli ottimi romanzi del Rigogolo, dalla veste editoriale
elegante (e opera di autori affermati come Raffaele Crovi, Vincenzo
Mantovani, Luciano Anselmi, Giuseppe Bonura, Carlo Della Corte, ecc)
che, però, sfortunatamente, dura poco, perché il pubblico trova i
volumi troppo costosi. Lo stesso editore, allora, punta ancora sui
gialli ma inserendoli tra i titoli della sua collana di narrativa
mainstream: il successo stavolta sarà grande e permetterà di
ristampare anche molte opere dimenticate di Scerbanenco.
Notare, qui come in "Dov'è Anna?", le suggestive copertine firmate dal grande John Alcorn
Pure la Fratelli
Fabbri provò a inserire con buon successo dei romanzi di giallisti
italiani (Enrico Vaime, Sandro Caputo, Gaetano Gadda, Domenico
Paolella, Luigi Ferrante, Inisero Cremaschi, ecc) nella sua collana “Sottoaccusa”,
in cui li alternava a testi di divulgazione storica redatti su misura
per un pubblico vasto ma curioso.
Ma l’evento più foriero di
conseguenze sta nella scelta compiuta da alcuni personaggi di secondo
piano del mondo culturale (redattori, traduttori, curatori,
sceneggiatori televisivi e radiofonici, etc.) di provare ad
affacciarsi nel mondo della narrativa scrivendo romanzi gialli. Tra i
nomi di chi fa questa scelta troviamo i numi tutelari del giallo
italiano attuale, quello che ha successo in patria ed è tradotto in
tutto il mondo: Carlo Fruttero & Franco Lucentini (La donna
della domenica è del 1972; sette anni dopo seguirà l’ancora
più impegnativo A che punto è la notte); Paolo Levi
(Ritratto di provincia in rosso apre nel 1975 la serie dei
suoi romanzi); Attilio Veraldi (La mazzetta è del 1975;
seguono a breve Uomo di conseguenza e Il vomerese);
Enzo Russo (dopo una serie di romanzi usciti in edizioni di poco
conto, scrive libri destinati a maggiore successo, ancora oggi
ristampati, come Il caso Montecristo del 1976 e La tana
degli ermellini del 1977); Renato Olivieri (che inaugura la serie
del commissario Ambrosio con Il caso Kodra, del 1978);
Riccardo Marcato e Piero Novelli (Il commissariato di Torino è
del 1973); Diana Crispo e Biagio Proietti, che ricavano un'ottima
novelization dalla sceneggiatura che avevano scritto per l'originale
televisivo Dov'è Anna? (1976).Tutti questi scrittori
approdano al successo (anche economico, specie grazie alle riduzioni
televisive e cinematografiche) in età matura e dopo una gavetta
lunghissima, come il massimo scrittore italiano attuale di gialli,
Andrea Camilleri, che a quel tempo aveva già pubblicato un romanzo e
lavorava come regista teatrale e televisivo.
Anche questa copertina è di Alcorn
Notare la copertina di Ferenc Pintér
Escono anche le prime antologie
collettive, secondo uno schema che avrà molto successo in futuro:
particolarmente significativa è Buon sangue italiano,
pubblicata da Rusconi nel 1977.
Infine, nel 1979, esce il primo
contributo critico serio e sistematico sul genere: Storia del
“giallo” italiano, di Loris Rambelli (Garzanti), ancora oggi
il migliore testo sull’argomento per il periodo che prende in
esame.
Oggi, di gialli italiani in libreria
se ne vedono fin troppi, e non tutti ugualmente validi. Ma è sempre
confortante notare come, tra gli scaffali, a parte l'onnipresente
Camilleri, spazi importanti siano sempre dedicati all'immenso
Scerbanenco, a Franco Enna che è ormai un autore cult, e
soprattutto ad Augusto De Angelis, ripetutamente ristampato in
collane a larga diffusione e finalmente assurto al rango che gli
spettava da sempre, quello di grande e inimitabile maestro.
Articolo esaustivo e contentissimo. Nella copertine originali. Complimenti!
RispondiEliminaVeramente esaustivo. Molto interessante e complimenti per le copertine dei libri, vere chicche
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