“Le forze dell'ordine, in un
regime autoritario, sono strumenti di potere e oppressione dei
cittadini; nel sistema democratico, sono garanzia di libertà e
ordinato progresso.
Offrire la vita per questo ideale è
eroismo da additare ai posteri.”
Questa scritta si trova apposta sullo
scarno monumento che il Municipio di San Lorenzello (BN) eresse nel
1989 alla memoria di uno dei suoi cittadini, l'appuntato di P.S.
Antonio Cestari, nato nel 1930, ucciso l'8 gennaio 1980, a Milano, in
un agguato terroristico delle BR (insieme ai colleghi Rocco Santoro e
Michele Tatulli) durante una perlustrazione su un'auto civetta,
medaglia d'oro al merito civile alla memoria.
Il dettaglio anagrafico ci racconta che
Cestari, entrato in polizia nel 1950 (i suoi colleghi erano molto più
giovani), aveva vissuto in divisa gli anni della Celere di Scelba,
quando i giovani si arruolavano per sfuggire alla miseria del lavoro
a giornata nei campi, o il pericolo di fabbriche in cui non c'era
alcun tipo di sicurezza o garanzia, o quello ancora maggiore di
miniere come Marcinelle o Ribolla (teatro di tragedie con centinaia
di morti) e venivano sfruttati per uno stipendio miserabile ma
sicuro, non godevano neppure del riposo settimanale (fu introdotto da
Fanfani solo nel 1953), dormivano in camerate inospitali piene di
cimici, mangiavano un rancio quasi sempre insufficiente e potevano
essere sbattuti fuori da un momento all'altro se solo non
manganellavano abbastanza ferocemente gli scioperanti e i
manifestanti, ossia contadini, operai e minatori uguali a quelli che
loro stessi sarebbero stati senza la divisa. Sandro Medici, in “Vite
di poliziotti” (Einaudi) ha raccontato alcuni aspetti di questa
realtà dimenticata.

Il libro di Sandro Medici
Ma poi la situazione, piano piano, è
cambiata. Non solo per i poliziotti, ma pure per tutti gli altri
cittadini. La Costituzione, che inizialmente esisteva solo sulla
carta, è stata faticosamente attuata, almeno in parte, vincendo le
resistenze dei tanti privilegiati che ne aborrivano i principi
egualitari. E il concetto espresso dai concittadini di Cestari nel
monumento è chiaro e limpido, coerente con i principi
costituzionali. Non esiste democrazia, non esiste diritto, senza
efficaci strumenti di controllo, prevenzione e indagine al servizio
del terzo potere dello Stato. Nessuna persona che si consideri
minimamente civile può rifiutarsi di condividerlo.
Purtroppo, però, troppe volte, in
Italia, questo concetto è rimasto solo sulla carta. L'evidenza di
non pochi fatti ormai definitivamente accertati oppure molto dubbi di
fronte a discutibili verità ufficiali mostra che non di rado le
FF.OO. sono state impiegate come una sorta di milizia privata di chi
deteneva il potere in quel momento, quando non addirittura di chi
tirava i fili dietro la pantomima di un potere attribuito in modo
formalmente democratico. Gran parte di ciò che si sa di questi
episodi deve ancora essere oggetto di uno studio sistematico, perché
non sempre gli archivi e le altre fonti di notizie sono a
disposizione di chi vorrebbe approfondire le questioni. Solo la
tenace insistenza di pochi che spesso erano stati duramente toccati
nella propria vita personale, tramite ad esempio la perdita di una
persona cara, è riuscita ad aprire qualche squarcio in una cortina
di silenzio imposta d'autorità e poi mantenuta per decenni.
La storia che stiamo per raccontare è
talmente poco conosciuta che nemmeno quelli che sarebbero più
interessati a divulgarla la conoscono. Riguarda la fine di un giovane
militante di sinistra, eppure neanche “Cuori rossi” di Cristiano
Armati (Newton Compton), il più dettagliato catalogo di figure ed
episodi simili, gli dedica l'ombra di un rigo. E, addirittura,
perfino il collettivo studentesco che gli è stato intitolato a
Napoli ha un'idea piuttosto vaga di come siano andate le cose, tant'è
vero che, in tutte le pagine web che gli ha dedicato, la data della
sua morte è sbagliata. Per ricostruirla, è stata necessaria una
paziente ricerca tra gli archivi digitali dei quotidiani del tempo.
Stiamo parlando di Vincenzo De Waure,
nato a Napoli nel 1951 e morto in circostanze che è già un
eufemismo definire misteriose nella notte tra il 20 e il 21 gennaio
1972.
Enzo De Waure appartiene a una famiglia
numerosa (genitori e 13 figli, lui è il secondo) che, proprio per la
sua consistenza, non versa in una situazione molto favorevole, benché
il padre abbia un impiego fisso da centralinista al Comune di Napoli.
Il padre è un militante del Msi e, nel 1965, iscrive anche Enzo alla
federazione giovanile di questo partito. Ma Enzo vi si trova molto a
disagio e, dopo due anni, lascia il Msi per mettersi a frequentare
circoli di marxisti-leninisti. Intanto, frequenta con ottimo profitto
il liceo scientifico a via Cinthia, nella scuola che inizialmente si
chiamava IV Liceo Scientifico e oggi si chiama Liceo Copernico ma,
per la maggior parte del tempo, incluso il periodo in cui vi studia
Enzo, si chiama VIII Liceo Scientifico.
Qualche parola sulla scuola di Enzo va
spesa. L'VIII riceve la sua utenza da quartieri popolari come
Soccavo, Fuorigrotta e Pianura ed è considerato una roccaforte della
sinistra. Ragione per cui sul suo conto girano parecchie brutte voci,
tutte inventate. Si racconta che sia un covo di tossicomani: ma,
anche se non pochi alunni fumano canne, nessuno fa uso di droghe
pesanti (nel periodo tra fine anni '70 e primi anni '80, quando la
tossicodipendenza miete ogni anno diverse centinaia di vite tra i
giovani, nessuno studente o ex studente dell'VIII muore di overdose).
Se mai è vero che, nello spazio antistante la scuola, piuttosto
isolato e buio, vanno spesso a “farsi” i tossici provenienti da
altrove. Un'altra leggenda è che sia una scuola dalle promozioni
facili, dove si va avanti con il “6 politico”: ma basta dare
un'occhiata ai quadri di fine anno per rendersi conto che neanche
questo è vero. Ci sono continuamente occupazioni e autogestioni, ma
chi a fine anno non ha raggiunto la sufficienza in tutte le materie
non ce la fa lo stesso. Tra quelli che si iscrivono all'VIII, solo il
35-40% arriva a prendere la maturità, a volte solo dopo aver
ripetuto uno o due anni.

Un'immagine dell'VIII Liceo Scientifico, oggi Liceo Copernico
L'ultima leggenda, che prenderà forma
solo qualche tempo dopo la fine di Enzo, è che sia una scuola
“maledetta”, che porta sfortuna a quelli che la frequentano. In
effetti, alcuni ragazzi muoiono per cause naturali e già questo
suona abbastanza sinistro, specie in rapporto alla fascia di età e
al numero non alto di studenti (non si formano mai più di 5
sezioni). Ciò che fa impressione, però, è soprattutto la catena di
disgrazie che si abbatte sui ragazzi dell'VIII negli anni '80. Nel
gennaio 1984, mentre si trova nella macchina dello zio a Pomigliano
d'Arco, Aldo Arciuli viene raggiunto alla testa da un colpo sparato
durante un regolamento di conti tra bande della delinquenza locale:
morirà dopo pochi giorni e i colpevoli non saranno mai identificati.
L'anno dopo, una motocicletta che arriva ad alta velocità da Pianura
si abbatte su un gruppo di studenti che stanno attraversando la
strada davanti alla scuola, dopo essere scesi da un autobus. Diversi
di essi restano feriti o contusi: il più grave, Massimiliano
Bassotti, che ha battuto la testa sull'asfalto, muore il giorno
stesso. Nel 1989, mentre se ne sta per i fatti suoi davanti alla
funicolare del Vomero, Marco Paracolli viene aggredito e ucciso a
coltellate da un malato di mente, Michele Fragna, che non lo aveva
mai visto prima.
In realtà, benché atroci e
impressionanti, questi episodi sono ancora troppo pochi per
rappresentare un valido campione statistico.
Ma torniamo alla vicenda di Enzo.
Arriva il '68 e la contestazione
giovanile lo trova in prima fila, tanto che diventerà uno dei leader
del '68 napoletano. A Enzo non interessano né il 6 politico né le
lauree facili, è uno studente brillantissimo, ma si è reso conto
che per quelli come lui, quelli che non sono nati privilegiati, anche
l'istruzione diventa una dura conquista, malgrado la Costituzione
affermi il contrario. La scuola che frequenta gli sembra, per usare
le parole di Don Milani, “un ospedale che cura i sani e respinge i
malati” e si impegna in prima fila per cambiare questa ingiustizia.
Intanto, però, per poter andare all'università, dopo il diploma,
dovrà mettersi a guadagnare per proprio conto, sia lavorando come
rappresentante di enciclopedie, sia impartendo ripetizioni di
Matematica e Fisica, materie in cui ha sempre brillato.
Si iscrive a Ingeneria Nucleare: una
scelta particolarmente legata ai tempi che sta vivendo. Allora,
infatti, i pericoli del nucleare civile sono pressoché sconosciuti e
non ci sono stati ancora i primi incidenti che apriranno gli occhi al
movimento ecologista, come la contaminazione dell'operaia Karen
Silkwood a Crescent, Oklahoma, nel 1974 (la Silkwood morì poi in un
incidente automobilistico molto dubbio mentre raccoglieva le prove
dei pericoli che correvano lei e i suoi colleghi. La sua storia è
raccontata in un celebre film di Mike Nichols) e soprattutto la
fuoriuscita di gas radioattivi dalla centrale di Three Mile Island,
in Pennsylvania, nel marzo 1979. A quel tempo il nucleare è
considerato l'alternativa pulita al carbone e al petrolio e la sola
strada per l'autonomia energetica. Non a caso, nel 1963, i maggiori
gruppi petroliferi hanno condotto una durissima campagna di stampa
affinché si arrivasse a una pesante condanna per il geologo Felice
Ippolito, segretario generale del Comitato Nazionale per l'Energia
Nucleare (CNEN) e maggiore sponsor del nucleare in Italia, che, per
una serie di irregolarità amministrative non particolarmente gravi,
si è beccato addirittura 11 anni di galera. Questa vicenda è
raccontata in “Un complotto nucleare” di Orazio Barrese (Newton
Compton).

La centrale nucleare di Three Miles Island
Karen Silkwood (1946-74)
Felice Ippolito (1915-97) e la notizia del suo arresto
Il libro sulla vicenda Ippolito
Quando Enzo si iscrive all'università,
dunque, Ingegneria Nucleare è una scelta che appare coerente con le
sue idee. Per lui, in realtà, è un ripiego, perché ha tentato
l'ammissione alla Scuola Normale di Pisa e non ce l'ha fatta per
pochissimo. Ma, nei due anni che riuscirà a frequentarla, ci mette
il massimo impegno, superando quasi tutti gli esami.
I progetti di vita di Enzo, però,
trovano davanti a loro un ostacolo. I neofascisti napoletani,
particolarmente violenti (anche perché spesso protetti dalle FF.
OO.) lo considerano un traditore e aspettano solo l'occasione giusta
per regolare i conti. Sono anni in cui questi neofascisti si
macchiano di ogni sorta di crimini, arrivando a incendiare il portone
dell'Università Centrale il 24 gennaio 1969, poi quello del liceo G.
B. Vico, poi assaltano l'ITIS A. Righi e infine fanno esplodere a
Piazzale Tecchio (proprio il luogo dove Enzo ha trovato la morte
undici mesi prima) una bomba che solo per combinazione non provoca
una strage, il 12 dicembre 1972, con la tracotanza di scegliere
proprio il terzo anniversario di piazza Fontana (nel luglio
precedente è addirittura saltata in aria una sede del Msi a
Pozzuoli, indicata come un covo di armi ed esplosivi). Questo senza
contare le ininterrotte aggressioni a cortei, manifestazioni o sedi
di partiti e circoli culturali, né il coinvolgimento di alcuni
elementi napoletani nell'accoltellamento mortale all'operaio parmense
Mariano Lupo, il 25 agosto 1972.
Enzo in un primo tempo accetta la sfida
e combatte, forse rispondendo colpo su colpo alle aggressioni, tant'è
vero che si becca anche lui la sua dose di denunce e finisce sotto
processo (che non sarà celebrato per via della sua morte). Ma i suoi
amici raccontano un'altra versione. Enzo finisce denunciato il giorno
(l'11 dicembre 1970) in cui subisce un'aggressione e, poiché conosce
personalmente i responsabili (Nicola Mezzasalma, Guido Baioni e Paolo
Petroccio), va dritto a denunciarli. Purtroppo però si rivolge al
commissariato di Fuorigrotta, al cui vertice c'è un funzionario al
quale vengono attribuite simpatie neofasciste. E questo lo trasforma
da vittima a indagato e lo mette nei guai. Gli amici di Enzo diranno
anche che il commissario fa quello che gli pare perché ha le spalle
coperte dal questore, Zamparelli, che è della sua stessa parrocchia
e si è sempre fatto in quattro per proteggere i neofascisti.
Zamparelli coprirà di vergogna le istituzioni che rappresenta il 24
giugno 1976 quando, ai funerali di Iolanda Palladino uccisa da una
molotov neofascista, manderà gli agenti a caricare il corteo funebre
per proteggere i neofascisti che espongono striscioni provocatori
lungo il tragitto.
La figura di questo commissario riemergerà con un
ruolo da protagonista in seguito.
Il 1971 è un anno decisivo.
Nell'aprile di quell'anno, Enzo è chiamato a testimoniare in un
procedimento contro due picchiatori neofascisti, Salvatore Caruso e
Dario Carino, che hanno tentato di incendiare la sede del Pci di
Fuorigrotta e la sua testimonianza è decisiva per la loro condanna.
I due sono però condannati a pene ridicole (1 anno di reclusione) e,
grazie alla condizionale, rimessi subito in libertà. Benché perfino
in aula Caruso provi a intimidirlo minacciandolo di morte davanti ai
giudici, non viene preso nessun provvedimento.
In estate, Enzo va in campeggio a
Montesilvano, in Abruzzo, come aveva già fatto in altri anni. Ma
stavolta viene via quasi subito e torna precipitosamente a Napoli. Il
campeggio si trova in vicinanza del campo-scuola del Fronte della
Gioventù. Appena tornato a casa, Enzo si rivolge al suo avvocato e
gli racconta di essere stato fatto oggetto di continue e insistenti
minacce anche lì, finché non ce l'ha fatta più e se n'è scappato.
Emotivamente, non ce la fa più in ogni
senso. Si sente circondato e abbandonato al suo destino. Lascia la
politica attiva, non partecipa più nemmeno alle assemblee e alle
manifestazioni. Si dedica solo all'università e frequenta, oltre
alla fidanzata Maria Grotta, studentessa liceale, solo pochi amici
fidati.
Finché arriva il giorno fatale, il 20
gennaio 1972. Enzo lo trascorre all'università e studiando, poi nel
tardo pomeriggio si incontra con Maria, con cui resta fino alle
20,30. La accompagna a casa e poi si incontra con due amici, il
geometra Bruno Cati e lo studente di Architettura Lucio Tutino. I tre
se ne vanno allo studio di Cati, dove passano la serata
chiacchierando ed Enzo esprime il suo desiderio di ritentare
l'ammissione alla Normale l'anno successivo. Dopo mezzanotte, Enzo
torna a casa e trova che tutti stanno già dormendo. Mangia qualcosa
in cucina, si prepara anche il letto (non ha una sua stanza e dorme
su una branda pieghevole). Ma poi, anziché coricarsi, esce. Alla
sorella Anna, che si è svegliata, dice che tornerà tra poco.
Circa un'ora dopo, intorno alle 2 del
21 gennaio, Mario Esposito, un operaio dell'Italsider che rientra a
piedi dal turno di lavoro, attraversa piazzale Tecchio, davanti allo
stadio S. Paolo. Vede che qualcosa sta bruciando in mezzo alla
strada. Pensa che sia una motocicletta e va a vedere. Invece è una
persona, è Enzo De Waure disteso per terra.
La Facoltà di Ingegneria (sede triennio) a Napoli negli anni '60
La stessa sede oggi
Panoramica di piazzale Vincenzo Tecchio: il sindaco De Magistris ha annunciato il prossimo cambio di nome dell'area, che sarà intitolata a Giorgio Ascarelli, primo presidente del Napoli Calcio
“Il Mattino”, il giorno dopo, dando
la notizia come “ultim'ora” in prima pagina, titola il pezzo:
“Universitario si uccide alla maniera dei bonzi stanotte a
Fuorigrotta”. Il giorno dopo, Enzo è ancora in prima pagina: “Si
ignora perché lo studente De Waure si è ucciso”, poi le
successive notizie finiscono in cronaca. Il servizio di “La
Stampa”, il 22, si intitola “Universitario minacciato da alcuni
mesi dai fascisti s'uccide con il fuoco a Napoli” ed è molto
dettagliato. Nel tipico linguaggio del tempo, si precisa che, nella
zona, a quell'ora, sono presenti soprattutto “equivoci personaggi
del mondo del vizio (prostitute, lenoni, omosessuali)”.
La tesi del suicidio è stata
immediatamente diffusa dai carabinieri, i primi a intervenire, senza
nemmeno aver compiuto tutti i rilevamenti. Forse è la suggestione
del caso Jan Palach a Praga nel 1969, ma forse è pure qualcos'altro.
Il luogo in cui è stato rinvenuto il corpo di Enzo dista circa 100 m
dal commissariato di Fuorigrotta, quello in cui spadroneggia il
commissario che ha preso Enzo di mira, ed è impossibile che dal
commissariato non si sia sentito nulla. Non pochi testimoni dai
palazzi intorno (e soprattutto gli “equivoci personaggi del mondo
del vizio” che hanno visto e sentito tutto direttamente ma che non
saranno mai chiamati a rilasciare deposizioni) parlano di una serie
di forti grida e di fiamme altissime, ben visibili. Non si è visto
un poliziotto sulla scena dei fatti e dal commissariato si giustifica
la cosa affermando che il caso era di competenza dei carabinieri,
perché erano stati chiamati per primi.
Gli amici di Enzo, davanti alla
“verità” ufficiale, non se ne stanno con le mani in mano e
conducono un'inchiesta molto più dettagliata di quella delle FF.
OO., che ovviamente non è giunta a niente. Già la mattina del 21,
recandosi sulla scena dei fatti, scoprono che questa non è stata
recintata, che chiunque va e viene alterando le tracce e che molti
importanti reperti, tra cui un accendino e i resti di una latta di
benzina, non sono stati raccolti. Li prendono con ogni precauzione e
li portano al commissariato, dove chiedono inutilmente una ricevuta.
Altri reperti (tra cui orologio, anello e occhiali di Enzo) o non
sono stati mai rinvenuti o sono spariti. Le prostitute presenti,
interrogate la notte successiva, parlano chiaramente di
un'aggressione a un uomo, che è stato gettato a terra in una delle
aiuole della piazza e poi dato alle fiamme. Raccontano anche di
intimidazioni da parte dei poliziotti, che avrebbero addirittura
portato via a forza una di loro, una certa Rosina. L'autopsia di Enzo
mostra che il ragazzo ha subito un pestaggio ed ha ricevuto anche una
coltellata all'addome, prima di prendere fuoco. Le stesse ustioni si
trovano da un solo lato del corpo, come se la benzina gli fosse stata
versata addosso mentre era disteso per terra su un fianco. Enzo è
stato bruciato mentre era ancora vivo, tanto è vero che ha provato
ad alzarsi ed ha raggiunto la strada prima di cadere di nuovo.
Nel silenzio quasi totale dei mass
media, solo “Lotta continua” e “Mo' che il tempo si avvicina”
(il cui direttore era Giampiero Mughini), due fogli di estrema
sinistra, continuano a chiedere giustizia per Enzo. Forse le loro
posizioni sono estremiste, forse le loro conclusioni sono azzardate,
ma certo è che nessuno si spreca a rispondere, in nessun modo, a
tutte le numerose questioni che sollevano, neppure per smentirle. In
compenso, Salvatore Caruso, il neofascista che in tribunale minacciò
Enzo di morte, va infastidendo gli studenti che vendono per strada le
copie dei due giornali, minacciandoli di querela se continuano a
parlare del fatto e a metterlo in mezzo. Ma poi non attua questa
minaccia. Naturalmente, per quella notte, ha un alibi di ferro.
Numeri d'epoca delle due testate
Il caso finisce archiviato e non sarà
mai riaperto. Negli anni successivi, se ne parla sempre meno e spesso
a sproposito (alla fine degli anni '70 si diceva addirittura che Enzo
era stato “colpito da una bottiglia molotov mentre lavava la
macchina in mezzo alla piazza” e qualcuno arriverà a inventarsi
che “è stato ucciso da quelli del Pci perché voleva lasciare la
politica e sapeva troppe cose”). Negli anni '80 cade nel vuoto la
proposta di intitolare l'VIII alla sua memoria, avanzata dalla
professoressa Maria Prinzi. Solo nel 2002, a 30 anni dalla sua morte,
il Comune di Napoli appone una lapide a suo ricordo nel luogo in cui
fu ritrovato, davanti alla Mostra d'Oltremare. L'evento passa quasi inosservato e di questa lapide non si trovano immagini in rete.
Per la stesura di questo pezzo mi sono
avvalso della collaborazione dell'amico Sandro Pagano, lettore
attento e critico dei miei articoli e memoria vivente dell'VIII Liceo
Scientifico, da noi frequentato tra la fine degli anni '70 e i primi
anni '80. L'occasione è stata buona anche per dedicare un pensiero
affettuoso a Enzo, Aldo, Massimiliano, Marco e gli altri amici che
hanno diviso la loro giovinezza con noi e oggi vivono ancora in un
angolo speciale del nostro cuore.