venerdì 24 giugno 2016

La strana morte di un campione: Rashidi Yekini

L'anno 1994 segna il punto più alto nella storia del calcio nigeriano. Le Super-Aquile della squadra dalla maglia verde e bianca come la bandiera nazionale, prima vincono senza rivali la Coppa delle Nazioni Africane giocata in Tunisia tra marzo e aprile, poi figurano brillantemente nella loro prima partecipazione ai Campionati del Mondo giocati in Usa tra giugno e luglio, dove escono agli ottavi di finale, eliminati fortunosamente ai supplementari dall'Italia di Roberto Baggio, dopo aver dominato gli azzurri per gran parte della partita.
Di quella squadre fanno parte molti campioni già noti al pubblico europeo, o che si trasferiranno in Europa subito dopo, come Amokachi, Amunike, Oliseh e altri; ma l'indiscusso condottiero e trascinatore è il capitano, il veterano Rashidi Yekini, che gioca in Portogallo, è il bomber del Vitoria Setubal e, pur essendo il più anziano della squadra insieme al portiere Rufai, è quello che si batte più di tutti, quello che non si dà mai per vinto.
Yekini in azione contro l'Italia nel 1994

Yekini, un atleta alto oltre 190 cm e largo come un armadio a due ante ma agile come un ballerino, dalla devastante potenza fisica abbinata a una esemplare correttezza in campo, entra nella storia del calcio mondiale il 21 giugno 1994: quando, al 21' dell'incontro Nigeria-Bulgaria segna il primo gol della sua nazionale ai Campionati del Mondo.
L'esultanza di Yekini dopo il gol alla Bulgaria nel 1994

In quell'edizione, non troverà più la via della rete, ma sarà tra i migliori della sua squadra in tutte le partite. Entra nel cuore non solo degli addetti ai lavori, ma anche del pubblico meno esperto di gioco ma più attento al lato umano dei campioni. Nessuno dimenticherà la sua commossa esultanza dopo il gol alla Bulgaria o la compostezza con cui, prima di ogni partita, si sofferma a pregare ai bordi del campo. Yekini, musulmano osservante, non prega Allah per la vittoria, ma perché vinca il migliore e nessuno si faccia male.
I Mondiali del 1994 sono però il canto del cigno della sua carriera. Ha già 31 o 32 anni (come spesso accade nei Paesi africani in cui gli uffici di anagrafe non funzionano alla perfezione, dai documenti ufficiali risulta nato nell'ottobre del 1963 a Kaduna, una città nella zona centrale della Nigeria, ma da altre carte sembra che in realtà sia nato nell'agosto del 1962) e, complici alcuni infortuni, non riesce più a ripetersi ai livelli precedenti. In Nazionale viene ancora convocato sporadicamente fino al 1998; poi si decide a lasciarla, amaramente, dopo l'eliminazione di questa agli ottavi di finale (sconfitta per 4-1 dalla Danimarca) ai Mondiali di Francia del 1998. 
Yekini in campo contro la Danimarca nel 1998

In quella squadra, Yekini era ormai una riserva, e a volte il suo ingresso in campo era accolto dai fischi del pubblico, compreso quello composto dai tifosi nigeriani, che lo ritenevano ormai vecchio e superato. La sua esperienza internazionale si chiude con 58 presenze e 37 gol, che lo rendono il bomber indiscusso della Nigeria (dopo di lui, il primo è Segun Odegbami, campione degli anni '70-'80, che ne ha segnati 23).
Continua però a giocare nelle squadre di club: quando non c'è più possibilità di ottenere ingaggi in Europa, va in Arabia Saudita e in Costa d'Avorio. Infine rientra in patria. Appende definitivamente le scarpette al chiodo nel 2005.
Yekini dopo il ritiro dall'attività

Quando era giocatore famoso e stella della Nazionale, Yekini si era costruito una fama di uomo esemplare, noto in patria anche come filantropo. La Nigeria non è il miglior Paese del mondo in cui vivere: un territorio enorme, uno Stato federale con quasi 200 milioni di abitanti appartenenti a etnie molto differenti tra loro, e infinite ricchezze naturali, ma tutto è in mano alle multinazionali, che controllano e impongono sia i governi sia le leggi, a spese della popolazione sfruttata e costretta a vivere nel sottosviluppo. Il colonialismo, la cui criminale avidità veniva già denunciata dal padre della letteratura nigeriana Chinua Achebe negli anni '50, ha lasciato un'eredità devastante di odio, violenza e sopraffazione. Negli anni '90, il dittatore Sani Abacha, completamente asservito alle compagnie petrolifere, ha condannato a morte lo scrittore Premio Nobel 1986 Wole Soyinka, poi rifugiatosi negli Usa, e il poeta Ken Saro Wiwa, impiccato nel 1995 in quanto reo di "terrorismo" per essersi schierato dalla parte dei movimenti ecologisti che manifestano per la tutela ambientale del delta del Niger, dove l'estrazione del petrolio sta distruggendo ogni ecosistema. Dieci anni dopo questa assurda esecuzione, scomparsi tutti i riferimenti dell'ecologismo pacifista, nella stessa area prenderà vita il Mend (Movimento per l'emancipazione del delta del Niger), un'organizzazione paramilitare che, sotto la bandiera della battaglia per la tutela dell'ambiente, compie ancora oggi ogni genere di atti di vero terrorismo.
Chinua Achebe (1930-2013)

Wole Soyinka (1934)

Ken Saro Wiwa (1941-95)

In questa situazione, i conflitti etnici si acuiscono e i peggiori fanatismi trovano tutto lo spazio che vogliono: gli integralisti islamici, già molto prima di Al-Qaeda e dell'Isis, prendono di mira i cristiani (l'Islam è la religione di circa il 50% dei nigeriani, mentre i cristiani sono il 48% e il resto sono animisti, ma la distribuzione delle fedi non è uniforme, prevalgono i cristiani al Sud e i musulmani a Nord, e nelle aree i mezzo i conflitti sono violentissimi) con attentati che causano centinaia di morti. Le "imprese" della setta jihadista Boko Haram, fanatica e scissionista, trovano oggi ancora molta risonanza presso i mass media occidentali e non risparmiano nemmeno i calciatori, come Christian Obodo (ex di Udinese, Fiorentina e Lecce), rapito nel 2012 mentre si reca in chiesa e salvatosi solo perché riesce a fuggire prima di essere ucciso. Yekini, pur essendo musulmano, non ha nulla a che vedere con gli integralisti, da cui prende ripetutamente le distanze; e, anzi, tornato in patria non va a vivere nella natia Kaduna che è a maggioranza musulmana ma piena di integralisti violenti, ma in una piccola città, Irra, nello Stato di Kwara, a maggioranza cristiana, dove lui e la sua famiglia sembrano perfettamente integrati.
Poi succede qualcosa che non è stato ancora chiarito e chissà se lo sarà mai. Yekini lascia l'ultima moglie (ne ha avute 3) e i tre figli a Irra, dove vivono altri suoi parenti tra cui la madre e uno zio che è un piccolo politico locale, e si trasferisce a Ibadan, ancora più a Sud, la seconda città più popolosa della Nigeria. Ci va, pare, per mettersi in affari con un suo vecchio amico, Ibrahim, che di professione fa il gioielliere. Sembra che investa tutti i suoi risparmi in questa attività, che all'inizio sembra andare benissimo. Ma, intorno al 2008, qualcosa va storto. Il negozio di Ibrahim subisce una rapina, Ibrahim viene ucciso, tutta la sua merce e tutta la sua cassa spariscono. La rapina, da subito, non appare un colpo improvvisato da una banda di balordi ma l'opera di professionisti che sapevano benissimo cosa cercare e dove. Non si saprà mai chi è stato: la legge, in Nigeria, è spesso un optional.
Da un momento all'altro, Yekini si ritrova a perdere tutto ciò che possedeva. Resta a Ibadan e conduce una vita sempre più isolata. Si sente in pericolo, parla di maledizioni che lo avrebbero colpito. Si lascia andare, al punto che i testimoni (amici e vicini di casa) riferiscono di averlo visto spesso in strada vestito come un barbone, a comprare cartocci di pesce e piantaggine arrosto (un cibo tradizionale nigeriano) da venditrici ambulanti, o a fare i propri bisogni nei cespugli. Trapelano notizie per cui sarebbe affetto da depressione, disturbo bipolare e altre patologie psichiche non meglio identificate. Ma nessuno fa nulla, tanto meno le autorità, pure ripetutamente sollecitate. La situazione precipita nel 2012, anche se le versioni disponibili sui fatti sono tutte molto confuse. Si parla di parenti che convincono Yekini a farsi curare da stregoni e altri santoni, di pratiche che finiscono per debilitarlo ulteriormente e lo riducono in uno stato pietoso, fino al ricovero in un ospedale di Ibadan, dove però arriva in fin di vita e muore il 4 maggio 2012. Perfino a questo punto, dal certificato di morte, non si capisce cosa ne abbia provocato la fine.


Negli anni successivi, la madre di Yekini denuncerà la totale indifferenza delle autorità al destino del figlio; l'ex compagno di nazionale Sunday Oliseh stigmatizzerà con rabbia l'ingratitudine di un popolo intero verso un grandissimo atleta: ingratitudine di cui, dirà, Yekini era consapevole e per questo pesantemente amareggiato. Ma, in tempi più recenti, la polemica si è spinta ancora più avanti. Compaiono articoli di giornale, post su blog indipendenti, video su YouTube che cercano di ricostruire la vicenda e non ci riescono, perché ogni possibile risposta lascia sempre aperti mille interrogativi. E si chiedono: com'è potuto accadere? Perché nessuno ha fatto nulla quando era possibile farlo? Cosa nascondono i tantissimi lati oscuri di questa tragedia? In poche parole: perché Rashidi Yekini è morto?

domenica 19 giugno 2016

Vercelli, 13 novembre 1975: un "delitto stupido"

Vado a prendere le sigarette dal borsello” disse il giovane, alzandosi dal tavolo e avviandosi verso l’ingresso. Nessuno gli prestò attenzione: lo spettacolo in TV, “Macario uno e due”, era troppo divertente per distrarsi. Arrivato alla porta, però, il giovane si voltò: in mano teneva una pistola. Cominciò a sparare, uccidendo l’uomo anziano e quello di mezza età: poi l’arma si inceppò.
La ragazza aveva anche lei una pistola, ma i colpi che aveva sparato non avevano colpito nessuno. Il giovane la raggiunse, le prese l’arma e uccise anche il bambino, la donna di mezza età e infine la donna anziana.
In tutto, andarono a segno 17 colpi, 5 dei quali esplosi da distanza molto ravvicinata: in altre parole, “colpi di grazia”.
Infine, prima di andare via, la coppia ammazzò anche il cane, che aveva avuto la sciagurata idea di mettersi ad abbaiare.
Il giovane e la ragazza uscirono dalla villetta, raggiunsero l’auto dove li aspettava un amico, e si recarono a una festa cui erano stati invitati.
Il luogo del delitto, il giorno in cui questo fu scoperto



Ciò che avete appena letto non è il racconto di uno scrittore “cannibale” in voga qualche anno fa (“Pulp, molto pulp, pure troppo”, commentava il comico Bebo Storti a “Mai dire gol”), ma il resoconto sintetico di un delitto consumato a Vercelli il 13 novembre 1975, in una villetta monofamiliare di via Caduti dei Lager. Nella prima metà del 2001, i due artefici sono stati spesso rievocati dai mass media nella poco edificante veste di “precursori di Erika e Omar”
Gli assassini si chiamavano Doretta Graneris e Guido Badini, rispettivamente 18 e 21 anni, una normale coppia di ragazzi di famiglia borghese, lei studentessa, lui diplomato senza un lavoro e soprattutto senza troppa voglia di trovarne uno, fidanzati da oltre due anni. Due “bamboccioni”, avrebbe detto l'ex ministro Padoa Schioppa. I morti (Sergio Graneris, Itala Zambon, Paolo Graneris, Romolo Zambon e Margherita Baucero) costituivano la famiglia di Doretta Graneris: padre, madre, fratello e nonni materni.
Guido Badini e Doretta Graneris durante il processo

Le immagini delle 5 vittime su un quotidiano del tempo

Come sempre, in questi casi, le indagini delle forze dell’ordine partirono dall’ambito familiare. E' raro trovare resoconti di indagini più rapide e facili. Quando le comunicarono la notizia, Doretta reagì con indifferenza, come se si stesse parlando delle previsioni del tempo. Nella macchina di Guido, la prima perquisizione trovò un bossolo compatibile con i colpi sparati nell'eccidio. Interrogati dai carabinieri, i due crollarono dopo breve tempo. Non avevano neppure pensato a simulare rapine o altre circostanze che permettessero di scaricare la colpa su immaginari “babau”; a quel tempo, di immigrati delinquenti non si parlava neppure: e neppure (erano decisamente tempi migliori di quelli attuali) se ne sentiva la mancanza, così come non si sentiva la mancanza di politicastri da quattro soldi che, dovendo coprire la propria assoluta mancanza di idee e di progetti, cavalcassero la lotta all’immigrato delinquente per ottenere facili consensi e alimentassero senza ritegno la psicosi dell’”uomo nero”.
C'era anche un terzo soggetto coinvolto, un certo Antonio D'Elia, una pasta d'uomo che aveva già alle spalle dei precedenti per stupro e occasionalmente aveva rapporti sessuali con Doretta, con il consenso di Guido che si divertiva (contento lui!) a guardarli. Inizialmente ingaggiato come killer, vista la sua manifesta inettitudine, fu poi retrocesso al ruolo di palo e autista. Il fatto che la perquisizione portasse al reperimento del bossolo nella macchina di Guido nonostante l'uso di un'auto rubata per raggiungere la villa dei Graneris e per allontanarsene, e poi di un'auto noleggiata per andare alla festa subito dopo il delitto, la dice lunga sulla lucidità e l'attenzione con cui i tre portarono a fondo il disegno criminale.
Dalla ricostruzione degli inquirenti emerge pure che Guido, per dimostrare a Doretta di essere capace di compiere la strage, una sera ha ammazzato una povera prostituta raccolta per strada, davanti a lei.
Doretta e Guido si difesero come Erika e Omar (e come tantissimi altri), cioè con il più scontato scaricabarile: “Io sono un bravo ragazzo, è stata lei a plagiarmi”, “Io sono una brava ragazza, è stato lui a plagiarmi”. Le motivazioni del delitto non furono mai del tutto comprese: ancora oggi resta il dubbio che la conclusione più ragionevole potesse essere (per dirla alla De Gregori) “e non c’è niente da capire”. Forse volevano l’eredità, senza dover aspettare il naturale corso degli eventi; forse volevano vendicarsi per lo scarso entusiasmo (peraltro più che giustificato e mai tradotto in azioni di vero ostacolo) dei genitori di Doretta verso la loro unione; forse non avevano nulla di meglio da fare, quella sera (e tante altre, visto che il delitto fu premeditato da molto tempo); e, con i “forse”, potremmo continuare per secoli.
L’espressione “delitto stupido” fu coniata in America dallo scrittore Ring Lardner a proposito dell’assassinio di un certo Albert Snyder, nel 1927, ad opera della moglie, Ruth Brown, e dell’amante di questa, Judd Gray. Il movente era liberarsi dello scomodo “terzo” e di incassare al tempo stesso la sua sostanziosa polizza di assicurazione sulla vita. L’omicidio fu accompagnato da una messinscena così goffa che i poliziotti non ebbero alcun problema a smascherare i colpevoli (condannati, in seguito, alla sedia elettrica). Tale termine, pur nella sua apparente banalità, sembra il più adatto a definire ciò che accadde a Vercelli la sera del 13 novembre 1975.
A quel tempo non c’erano (un’altra cosa di cui non si sentiva la mancanza) neppure psichiatri ammalati di protagonismo determinati ad apparire in tutte le trasmissioni televisive per dire qualunque cosa, anche che l’assassino è la vera vittima (e che, quasi quasi, la vittima è il vero assassino: Kafka avrebbe molto apprezzato questo genere di paradossi). Nemmeno i pennivendoli di più bassa lega osarono mortificare Peynet parlando di “fidanzatini”. Saltarono fuori, invece, dettagli pruriginosi circa le pratiche di scambismo e sesso di gruppo cui la coppia sarebbe stata dedita, e illazioni sulle simpatie di estrema destra da parte di Guido, che certo non contribuirono a migliorare la sua immagine. L’opinione pubblica, compatta, pretese una punizione esemplare; in breve, Doretta Graneris e Guido Badini si beccarono l’ergastolo: lui anche un anno e mezzo di segregazione e 5 di casa di lavoro per il delitto della prostituta. Di D'Elia, gli avvocati riuscirono a dimostrare la seminfermità mentale: si beccò 22 anni. Altri due loro amici, che erano a conoscenza del piano e avevano fattivamente contribuito a procurare le armi e a distruggere prove, si beccarono 15 anni a testa.
Di Guido Badini mancano notizie aggiornate, si sa solo che da poco tempo ha ottenuto la semilibertà e si sarebbe trasferito dal Piemonte alla Lombardia. Doretta Graneris ha ottenuto la semilibertà nel 1992 e la libertà condizionata nel 2000; appena libera, ha dichiarato di voler dedicare il resto della vita a opere di bene. Non si sono mai più incontrati dopo il processo.
La sesta vittima dell’eccidio (morì di crepacuore, dopo poco), la nonna paterna di Doretta, Maria Ogliaro, dichiarò, riguardo la nipote: “Se il Padreterno vorrà perdonarla, quando sarà la sua ora, faccia pure, ma non chiedetemi di fare altrettanto”.
Per il criminologo Massimo Picozzi, la coppia progettò il delitto perché ormai viveva in un mondo di fantasia disconnesso dalla realtà, non avendo la forza di affrontare le difficoltà della vita quotidiana; mentre lo scaricabarile del processo non fu solo una strategia suggerita dagli avvocati per istillare nei giudici il “ragionevole dubbio”, ma anche l'espressione di un odio reciproco nato dal sospetto che l'altro fosse pronto a “tradire” pur di salvarsi.
Massimo Picozzi

Un grande scrittore del ‘900 americano, Thornton Wilder, ha scritto (nel suo capolavoro, Il ponte di San Luis Rey): “Alcuni sostengono che non sapremo mai, che per gli dèi noi siamo come le mosche uccise dai bambini nelle giornate estive. Altri dicono che perfino i passeri non perdono una penna senza che il dito stesso di Dio si muova per farla cadere.”
Thornton Wilder

E il nostro Dino Buzzati, nel racconto Lo scarafaggio: “Il pianto di un bambino – avevo letto un giorno – basta ad avvelenare il mondo. In cuor suo Dio onnipotente vorrebbe che certe cose non succedessero, ma impedirlo non può perché è stato da lui stesso deciso.”
Dino Buzzati



Quale che sia la nostra idea al riguardo, resta il fatto che Doretta Graneris doveva saldare un grosso debito alla società: e, se davvero si sta dedicando alle opere di bene, gli anni che le restano da vivere serviranno a saldarlo molto più di quelli trascorsi in carcere, che pure evidentemente sono serviti a qualcosa, come auspicavano Cesare Beccaria e tutti i filosofi e giuristi che ci insegnarono come la Giustizia e la Vendetta siano due cose ben distinte tra loro.

giovedì 16 giugno 2016

La strage della "Garifallia": delitto dimenticato o rimosso?

Chi ha avuto la pazienza di mettersi a leggere le edizioni online dei tabloid greci, magari aiutandosi con traduttori automatici, nelle convulse settimane in cui il governo di Alexis Tsipras trattava con le autorità europee i contenuti del pacchetto di riforme da attuare per garantire la permanenza del Paese ellenico nell'area Euro, prima o poi, deve per forza essersi imbattuto in un paragone che si ripete più volte negli articoli: quello del Premier con il capitano Antonis Plytzanopoulos.
La frase ricorrente è “quello fu considerato un criminale per aver buttato a mare 11 persone, allora questo che butta a mare 11 milioni di persone, che cos'è?”
Il paragone, al di là delle valutazioni personali sulle scelte politico-economiche di Tsipras (e soprattutto sull'esistenza o meno di alternative a queste) appare subito di un fastidioso cattivo gusto. Quasi quasi, pur di colpire Tsipras, si arriva a riabilitare un criminale come Plytzanopoulos: che, oltretutto, oltre a essere inizialmente condannato a una pena ridicola (10 anni e 10 mesi per una strage), non la scontò neppure per intero, venendo poi addirittura assolto in Appello. E, 32 anni dopo i fatti, la vicenda sarebbe del tutto dimenticata se non fosse per questo paragone con Tsipras: setacciando il web, se ne parla solo in due vecchi articoli italiani (di “Repubblica”, maggio 1984) e in due pagine in Inglese. Il libro “Un delitto al giorno” di Alessandro Riva e Lorenzo Viganò (Baldini & Castoldi, 1994) dedica un capitolo a questo episodio, ma ormai è fuori commercio. Pur impegnandosi, non si riesce a reperire sul web nessuna immagine del capitano Plytzanopoulos e una soltanto della sua nave, il mercantile Garifallia.

Veniamo adesso ai fatti. Cosa avvenne, il 17 marzo 1984?
La Garifallia, 14.300 tonnellate di stazza, appartenente alla compagnia Europe Gate Shipping, è adibita al trasporto merci e in quel periodo fa servizio nell'Oceano Indiano. E' comandata da Plytzanopoulos e il suo equipaggio è composto da 25 uomini, soprattutto greci e pakistani ma anche kenioti. Il 16 marzo 1984 è partita da Mombasa, Kenya, con destinazione Karachi, Pakistan. Insieme al carico, all'insaputa dell'equipaggio, ha imbarcato 11 clandestini, 11 ragazzi kenioti dai 14 ai 25 anni.
Il Kenya, che non è stato mai il miglior posto al mondo per viverci (da sempre in testa alle classifiche relative alla corruzione e agli abusi delle autorità), in quel periodo sta affrontando una fase ancora più incerta. Sono i tempi del monopartitismo di Daniel arap Moi, che perseguita con ogni mezzo e senza alcuno scrupolo tutti i suoi oppositori, reali o semplicemente possibili. Il 10 febbraio di quell'anno, a Wagalla, nel Nord del Paese, alcuni reparti dell'esercito hanno attaccato degli insediamenti della minoranza etnica somala, con la scusa di disarmare dei gruppi terroristici locali, e sequestrato circa 5000 persone, tutte uccise dopo 5 giorni di torture. La verità su questo episodio, continuamente negato, emergerà solo nel 2008, ma resta il fatto che in Kenya non si vive per niente bene e che, ai giovani che decidono di andarsene, non mancano certo le ragioni.
Gli 11 ragazzi si erano nascosti nella stiva ma, poche ore dopo la partenza, sono stati scoperti dall'equipaggio. Per farli uscire da lì, su iniziativa del comandante, la stiva è stata irrorata di topicida, una sostanza irritante e tossica. Il comandante Plytzanopoulos, ha dato ordine di chiuderli nel ripostiglio per gli attrezzi che si trova a prora, grande 2 metri per 3. I marinai ce li hanno sospinti a botte. La prassi è che vengano sbarcati al primo porto cui si attraccherà.
A questo punto, le versioni divergono.
Una sostiene che la prima notte di viaggio è stata afosa, e al mattino la temperatura in quel budello diventa insopportabile. Gli 11 ragazzi non ce la fanno più e forzano la porta fino a rompere il catenaccio che la chiude, poi se vanno in cucina a cercare acqua da bere. Avvertito dal nostromo, Plytzanopoulos si infuria, va a prendere il fucile che tiene nella sua cabina. Spaventati, gli 11 si chiudono di nuovo nel ripostiglio.
Secondo l'altra, invece, nella prima mattina del 17 marzo, Plytzanopoulos tiene una sorta di consiglio con alcuni marinai e decide di sbarazzarsi dei clandestini gettandoli in mare. La decisione lascia sbigottiti tutti quelli che non la condividono: altre volte l'equipaggio ha trovato dei clandestini a bordo, e li ha sempre sbarcati senza problemi e violenze al primo porto di attracco. Un marinaio keniota, che ha ascoltato le conversazioni, avverte gli 11, che si asserragliano nel ripostiglio di prora.
Secondo un'altra versione ancora, sono solo 9 quelli che si chiudono nel ripostiglio. Gli ultimi 2 restano fuori. Plytzanopoulos, dopo averli bastonati, ordina di mettere loro addosso dei giubbotti di salvataggio e poi buttarli in mare. Prima di fare questo, però, il nostromo cancella il nome della nave dai giubbotti.
Un'ulteriore versione sostiene che i 2 ragazzi kenioti rimasti fuori sono stati picchiati fino a spezzare un braccio a uno di loro, e poi scagliati fuori bordo senza neanche i giubbotti di salvataggio.
Secondo le testimonianze, la Garyfallia si trova 8 miglia al largo di Mombasa e procede alla velocità di 12 nodi, quando i primi 2 clandestini vengono gettati in mare. Alcuni marinai gettano in mare anche alcuni barili di legno vuoti, cui i naufraghi potranno aggrapparsi.
Gli altri, però, sono ancora chiusi nel ripostiglio di prora. Poiché non cedono nemmeno quando Plytzanopoulos esplode dei colpi in aria con il fucile, l'equipaggio ricorre di nuovo al topicida, e a quel punto i ragazzi devono uscire per forza.
Per un numeroso gruppo di persone, sopraffare 2 uomini non è difficile. Avere ragione di 9 è un'altra cosa. I ragazzi kenioti fanno resistenza, si aggrappano dappertutto (uno anche alle gambe del comandante) e i marinai li riempiono di botte e bastonate, fino a farli sanguinare, prima di scagliarli in mare. La zona, notoriamente, è infestata da squali.
Una volta “bonificata” la sua nave, Plytzanopoulos riprende la sua rotta come se nulla fosse. Sbarca il carico a Karachi e se ne torna in Grecia, due mesi dopo i fatti, fidando sull'omertà dell'equipaggio. E qui si sbaglia, perché lo stesso giorno dello sbarco, l'11 maggio, il telegrafista Stavros Ciatis, il secondo ufficiale Charalambos Coutougeras e due marinai, vanno immediatamente a denunciarlo all'Autorità Portuale del Pireo, che passa subito il caso al Tribunale di Atene.
Plytzanopoulos è subito arrestato, insieme al nostromo Philippos Kakonas, al cuoco Stratos Zografakis e al marinaio Thanassis Karetsos. Altri 6 membri dell'equipaggio sono imputati a piede libero. Il Ministro della Marina Mercantile Giorgos Katsifaras e i sindacati dei marittimi greci sono in prima fila tra quelli che chiedono giustizia per quello che appare come un crimine orrendo.
L'inchiesta del procuratore Antonis Roussos si consuma rapidamente, grazie alle deposizioni dei 4 testimoni. La Croce Rossa Internazionale riferisce che, a quanto le risulta, nessuno degli 11 ragazzi kenioti si è salvato. Al processo, Plytzanopoulos rischia una condanna a 20 anni, ma i suoi avvocati si aggrappano a ogni cavillo e, alla fine, il 12 settembre 1985, se la cava con 10 anni e 10 mesi in Primo Grado. I suoi 9 complici se la cavano con pene dai 14 ai 44 mesi.
In Appello, però, la situazione cambia. Dall'Africa, arrivano notizie contraddittorie, da cui risulterebbe che 6 degli 11 clandestini, in realtà, sarebbero riusciti ad arrivare vivi a terra, e successivamente sono stati portati a Mombasa. Un articolo dell'UPI (United Press International) datato 25 maggio 1984 (nel quale si citano fonti governative del Kenia per le quali quello della Garifallia sarebbe il quarto episodio del genere coinvolgente navi greche dal 1981, con almeno 13 morti accertati) fa anche il nome di un sopravvissuto, il 23enne Mohamed Salim, del quale è riportata una breve testimonianza. 
In ogni caso, non si riesce a rintracciarne nessuno per portarlo al processo. La Corte, comunque, il 20 marzo 1987, annulla la condanna precedente e si limita a comminare a Plytzanopoulos una multa di 8900 dollari, perché la morte dei clandestini non si può considerare provata al di là di ogni ragionevole dubbio. Sono ridotte anche le condanne di 5 suoi complici, mentre 4 sono addirittura prosciolti dalle accuse.
Da quel momento, questo caso scompare definitivamente dalle cronache, e questo fa pensare che non vi sia stato alcun ulteriore sviluppo successivo.
Cartina dell'Oceano Indiano: in nero la rotta della Garifallia, la croce rossa indica il luogo del fatto





domenica 12 giugno 2016

Pro e (soprattutto) contro Cyril Burt

Di per sé la Scienza è neutrale, non asseconda nessuna ideologia. Viceversa, moltissime ideologie hanno provato in tutti i modi a piegare la Scienza al loro bisogno di accreditarsi come “superiori” alle altre. Non a caso, negli anni '60 il grande biologo molecolare Jacques Monod scrisse un testo rivoluzionario, Il caso e la necessità, e stigmatizzò questo atteggiamento, da lui chiamato “animismo” e paragonato alla mentalità superstiziosa che sta alla base della degenerazione di tutte le religioni. In pratica, per Monod, il fatto che la Natura faccia le cose in un modo o in un altro, che segua delle leggi piuttosto che delle altre, non significa per forza che queste leggi siano considerate talmente giuste da essere riportate pari pari nelle società umane come principi morali ineludibili. Per quanto noi dobbiamo impegnarci a conoscere la Natura, non siamo obbligati a prenderla ad esempio.
Jacques Monod (1910-76)

Copertina della prima edizione italiana di Il caso e la necessità

Ma l'argomento è sempre stato di sicura presa sulle masse, nonché trasversale, perché soggetti che magari sono in disaccordo su ogni altra questione, possono perfettamente convenire che ”ciò che fa la Natura è sempre giusto”: quindi, i politici vi hanno sempre fatto ampio ricorso, quasi sempre in assoluta malafede.
Questo era in qualche modo prevedibile, ma non lo è il fatto per cui, tante volte, anche degli scienziati pure illustri si sono prestati a questo sporco gioco, di solito per assecondare le convinzioni della parte politica cui appartenevano (perché anche gli scienziati hanno le loro idee politiche e le loro debolezze). Finché questo avviene in buona fede, del resto, lo si può anche capire. Ma non sempre è avvenuto in buona fede, e ci sono stati casi di risultati scientifici contraffatti apposta perché confermassero una tesi già confezionata prima che cominciassero le ricerche.
Uno dei più noti episodi in tal senso è quello che vide protagonista lo psicologo inglese Cyril Burt.
Burt, nato nel 1883, era figlio di un medico di successo che, tra i suoi pazienti, annoverava Francis Galton, il cugino di Charles Darwin che è noto come uno dei fondatori dell'antropometria (la scienza che si occupa della misurazione del corpo umano e delle sue parti e della valutazione statistica di queste misure) e soprattutto come il primo importante esponente dell'eugenetica (una discutibile applicazione scientifica all'ideologia che le razze umane si dividessero in superiori e inferiori e si potessero “migliorare” con attraverso incroci selettivi che esaltassero determinate caratteristiche e l'eliminazione degli individui tarati). Oggi, l'eugenetica è considerata una teoria non solo criminale ma pure antiscientifica (le razze umane sono solo adattamenti al clima e l'endogamia tra esse tende ad aumentare significativamente il numero degli individui affetti da tare ereditarie; mentre l'ibridazione tende a ridurlo, dato che disperde in popolazioni molto più ampie i geni recessivi che causano queste tare) e c'è da aggiungere che lo stesso Darwin aveva pochissima considerazione per il cugino: ma, per molto tempo, le idee di Galton ebbero larga presa su molta parte dell'intelligencija nord-europea e nord-americana, già normalmente incline ad assumere posizioni razziste e discriminatorie. Fu dunque in questo clima culturale, che Cyril Burt si formò.
Cyril Burt nel 1930

Francis Galton (1822-1911) in una immagine del 1850

La sua carriera accademica fu molto rapida e brillante. Concentrò i suoi studi su una serie di temi da sempre scottanti, come l'origine delle inclinazioni criminali e l'ereditarietà dei talenti. Curiosamente, sui due argomenti, giunse a conclusioni del tutto opposte: dopo aver studiato a lungo diversi casi di delinquenti minorili, nel 1926 trasse la conclusione che non si diventa criminali per tendenze innate, ma per l'effetto negativo dell'ambiente in cui si cresce. Riguardo l'intelligenza, invece, fu il più accanito sostenitore, nel suo Paese, della teoria per cui intelligenti si può solo nascere, e non si diventa.
Per arrivare a questa conclusione, Burt studiò diverse coppie di gemelli identici, molte delle quali separate alla nascita in condizioni tali che i bambini crescessero in ambienti molto diversi. Sottopose i suoi soggetti a diversi test per la misurazione del Q. I. e interpretò i risultati utilizzando il coefficiente di correlazione di Pearson, uno strumento matematico atto a misurare rigorosamente come una misura tenda a variare in rapporto alle variazioni di un'altra. Il coefficiente di Pearson varia tra +1 in caso di perfetta coincidenza (quando le due misure cambiano entrambe allo stesso modo) e -1 in caso di perfetta discordanza (quando le due misure variano in modo esattamente opposto); il valore 0 indica che non c'è nessuna correlazione tra le due misure.
Ma l'uso di rigorosi strumenti matematici non basta: occorre anche applicarli a un campione abbastanza vasto da escludere che i risultati possano essere dovuti alla casualità. Il campione su cui lavorò Burt era il più ampio mai trattato: 53 coppie di gemelli.
Dai suoi studi, comunque, Burt ricavò la conclusione che tra i gemelli allevati nella stessa famiglia, il coefficiente di correlazione relativo ai test sul Q. I. era di 0,994, ossia quasi il massimo. Mentre in quelli allevati in famiglie diverse, era di 0,771, ossia quasi tre quarti del massimo. Da ciò, la conclusione non poteva essere altro che questa: l'intelligenza si eredita, l'ambiente in cui si cresce ha pochissimo impatto e le azioni educative devono essere al più presto “mirate” in maniera tale da evitare sprechi inutili. In base agli studi di Burt, che nel frattempo era diventato presidente della British Pischologycal Society e aveva ottenuto ogni sorta di cariche e onorificenze, nel 1944, il Governo inglese introdusse per gli studenti, al termine del ciclo elementare, il test “11-Plus”, atto a discriminare precocemente i bambini in grado di affrontare studi di tipo liceale (ritenuti “superiori”) da quelli capaci di seguire solo studi a indirizzo professionale (“inferiori”). Sebbene criticatissimo e ad un certo punto modificato perché ritenuto troppo sbilanciato sulle competenze linguistico-lessicali a danno delle altre, tale test è rimasto in uso nel sistema educativo britannico fino al 1976 ed è ancora utilizzato come test di ingresso, su base volontaria, in alcune scuole.
La fama di Burt a livello anche internazionale andò sempre crescendo. Il M.E.N.S.A. (l'associazione internazionale delle persone con il più alto Q.I.) lo nominò suo primo presidente, nel 1960. Sebbene fosse ufficialmente in pensione dal 1950, fino alla sua morte nel 1971, Burt continuò a condurre studi e a pubblicarne i risultati.
Poi, le cose cambiarono, all'improvviso.
Nel 1974, lo psicologo americano Leon Kamin attaccò duramente le teorie di Burt, affermando che non erano attendibili scientificamente, per due importanti ragioni: la prima, che i risultati apparivano troppo precisi (tutte le coppie di gemelli davano sempre gli stessi risultati: 0,994 per quelli cresciuti nella stessa famiglia e 0,771 per quelli cresciuti in famiglie diverse) per essere veri; la seconda, che il campione di 53 coppie di gemelli era troppo ampio per essere verosimile, tanto più che non si spiegava come potesse essere tanto alto il numero di coppie di gemelli separati. Attaccato a sua volta da una parte dell'establishment scientifico che lo accusava di compiere un'operazione strumentale per ragioni politiche (Leon Kamin è, notoriamente, uno studioso di sinistra), Kamin compì altre ricerche a supporto delle sue critiche e cominciò a smascherare una magagna dietro l'altra nel modus operandi di Burt. Innanzitutto, trovò che, tra il 1939 e il 1943, Burt aveva citato in alcuni importanti articoli degli studi compiuti da alcuni suoi assistenti (Maver, Moore e Davis) dei quali non era rimasta traccia nelle università inglesi, neppure come studenti. Inoltre, Kamin scoprì che, dopo la morte di uno dei suoi maestri, Charles Spearman, nel 1945, Burt aveva cercato di accreditarsi quale autore del metodo di lavoro fondato da questo, l'analisi multifattoriale, ottenendo l'appoggio di un collega francese, tale Jacques Lafitte, e che anche di questo Lafitte non esistevano altre tracce a parte gli articoli scritti a sostegno di Burt.
Leon Kamin (nato nel 1927)

Nonostante la difesa di Burt da parte di gran parte del mondo accademico inglese, la demolizione della sua credibilità andò avanti con prove sempre nuove. Nel 1976, un'inchiesta del Sunday Times scoprì che nemmeno le due principali collaboratrici di Burt negli ultimi decenni di attività (Margaret Howard e Jane Conway) erano mai esistite, pur avendo firmato una enorme quantità di articoli e saggi usciti su riviste prestigiose e ovviamente tutti a favore di Burt.
I più accaniti difensori di Burt, soprattutto Hans Eysenck e Arthur Jensen, continuarono a denunciare il complotto ideologico di cui sarebbe stato vittima il loro maestro e, a quel punto, gli eredi di Burt decisero di affrontare di petto la situazione ingaggiando una persona fidata per scrivere una biografia critica autorizzata del loro congiunto. La scelta cadde su uno studioso di chiara fama, che oltretutto era stato tanto amico di Burt da tenere il discorso della sua commemorazione funebre, Leslie Hearnshaw. Questi ebbe quindi accesso a tutte le carte private di Burt e alla sua corrispondenza e, dopo essersi reso conto che la documentazione originale dei primi studi sui gemelli non era più disponibile (gli dissero che era andata distrutta in un incendio accidentale), cominciò ad avere dei dubbi sull'effettiva attendibilità dell'intero lavoro di Burt.
Hans Eysenck (1916-97): in Italia è noto per la serie di libri Prova la tua intelligenza giocando, pubblicata da Rizzoli

Arthur Jensen (1923-2012)

Leslie Hearnshaw (1907-91)

La copertina della biografia di Burt scritta da Hearnshaw

Quando la sua biografia di Burt uscì, nel 1979, assestò il colpo definitivo alla fama dello scienziato defunto otto anni prima. Nonostante una lunga serie di ricerche, non era stato possibile confutare nessuna delle accuse che Kamin e il Sunday Times avevano rivolto a Burt. Anzi, erano emerse altre frodi, una delle quali ammessa dallo stesso Eysenck, relativa all'esistenza di uno studente la cui tesi era stata citata in un importante lavoro di Burt e che pure non era mai esistito.
A quel punto, la fama di Burt era definitivamente tramontata.
Nel 1981, in uno dei suoi più importanti saggi, Intelligenza e pregiudizio, il grande biologo evoluzionista Stephen Jay Gould, si spinse anche oltre le critiche precedenti, evidenziando come già il metodo dell'analisi multifattoriale di Spearman si prestasse facilmente ad abusi come quello costituito dalle frodi di Burt.
La più recente edizione italiana di Intelligenza e pregiudizio

Ma è davvero la fine della storia? No.
Già nel 1983, in Il gene e la sua mente, Kamin, insieme al neurobiologo Steven Rose e al genetista Richard Lewontin, stigmatizzò come, nonostante l'esito dell'affaire Burt, la British Psychological Society non avesse minimamente cambiato opinione sull'ereditarietà del Q. I. e come nella versione ufficiale della società stessa Burt fosse riconosciuto solo come “negligente”.
Copertina dell'edizione italiana di Il gene e la sua mente

Nel 1993, in Le bugie della Scienza, lo storico della Scienza italiano Federico Di Trocchio concluse il suo capitolo su Burt citando due testi inglesi recentemente pubblicati, opera di Robert Joynson e Ronald Fletcher, entrambi intesi a rivalutare Burt screditando i suoi detrattori (soprattutto Hearnshaw), a costo di “arrampicarsi sugli specchi” (parole dell'autore).
Una delle edizioni paperback di Le bugie della scienza di Di Trocchio



Oggi, chiunque si azzardasse a compiere una ricerca via web su Burt, innanzitutto scoprirebbe, sgradevolmente, che non esiste nessuna pagina italiana dedicata alla sua vicenda; poi, considerando una dietro l'altra tutte quelle in Inglese, si renderebbe conto, con ancora più sgomento, che la maggior parte di esse è redatta da gente che esalta la figura di Burt, definendolo la vittima di un complotto. Anche se, dai tempi di Joynson e Fletcher, nulla è stato aggiunto alla discussione. Tranne forse il fatto che gli accusatori di Burt non sono più attivi, non hanno lasciato eredi accademici e, in definitiva, l'idea di selezionare precocemente chi riuscirà negli studi e chi no attraverso batterie di test, sta riprendendo piede in tutto l'Occidente, seguendo la suggestione del Giappone, dove certe metodiche di valutazione sono state sempre in uso senza che nessuno si sognasse mai di contestarle.

lunedì 6 giugno 2016

Ben prima di Cogne, Novi Ligure e Avetrana: il delitto di Alberto Olivo

Si è fuori strada se si pensa che la tv e le sue trasmissioni di più infimo livello, quelle che non disdegnano di ricorrere alla più becera pornografia dei sentimenti mettendo sullo stesso piano vittime e assassini pur di far crescere l'audience, abbiano inventato qualcosa di nuovo. Si può dire, al massimo, che abbiano allargato la diffusione di una tendenza che già esisteva nella società.
Un tempo, i delitti come quelli arci-noti di Cogne, Novi Ligure, Avetrana ecc, erano diffusi nella società esattamente come lo sono adesso. Forse un po' di più per via dell'analfabetismo e dell'abbrutimento che ne consegue: ma, tolti questi dettagli, non si vedono particolari differenze. I delitti maturati in ambito familiare, specie se borghese, erano in tutto e per tutto identici a quelli attuali, e così era anche il clamore che destavano, con il pubblico che li seguiva appassionandosene, dividendosi tra innocentisti e colpevolisti; mentre la Giustizia procedeva non seguendo tanto una filosofia del Diritto più o meno universale, ma soprattutto i pregiudizi del tempo. Come del resto è sempre stato, e sempre sarà.
Un domani, dunque, i giudici del processo Franzoni saranno forse considerati con lo stesso metro che ora adoperiamo, letteralmente sbigottiti, nel giudicare quelli del processo Olivo del 1904. E, forse, quando arriverà quel momento, la gente comune sarà sconvolta dall'idea di delitti che noi oggi troveremmo sostanzialmente giustificati, esattamente come noi oggi siamo sconvolti dal femminicidio che, al tempo di Olivo, era considerato qualcosa di più o meno normale. E, chissà, forse passeremo noi per retrogradi.
Ma ora raccontiamo la storia.
Alberto Olivo nasce a Udine il 2 giugno 1856 e vive una giovinezza normale nella zona di porta Aquileia. L'unica stranezza è (forse) il rapporto tra i suoi genitori: padre mingherlino e timido, madre formosa e passionale. La famiglia è comunque abbastanza stabile e benestante da farlo studiare fino a terminare il liceo. Infatti, Olivo sarà sempre appassionato di Matematica, Letteratura e Poesia, fino a proporsi anche come autore di liriche, senza successo. La sua vita, però, è tutt'altro che fallimentare. Trova presto un ottimo impiego da contabile nella ditta di porcellane Richard Ginori, dove arriverà a guadagnare lo stipendio di 175 lire mensili (una cifra, per quel tempo) e nel 1885 si trasferisce a Milano, dove va a vivere in via Macello, che oggi si chiama via Modestino.
Il Macello a Milano, vicino al quale abitava Alberto Olivo

Dieci anni dopo, commette quello che si rivelerà il più grande errore della sua vita: sposa una donna simile alla madre, ma più rozza, una contadina biellese trasferitasi in città per andare a servizio, Ernestina Beccaro, che ha 18 anni meno di lui e se l'è preso, evidentemente, per innalzarsi socialmente. Il matrimonio, va da sé, non funziona da subito. Passi per le differenze di età, di carattere e di interessi, che si potrebbero appianare con la buona volontà e l'affetto; ma l'incredibile e inspiegabile tirchieria di Olivo esaspera la moglie fino a tirare fuori il lato peggiore di questa. E sono litigi all'ultimo sangue, ogni giorno.
I protagonisti della vicenda in un disegno di Dino Buzzati e un sonetto di Alberto Olivo

Qualche studioso moderno ha visto in Ernestina Beccaro anche uno spirito istintivamente, coraggiosamente protofemminista. Semianalfabeta al momento del matrimonio, non pretende che il marito la copra di regali lussuosi ma che la faccia studiare, che le paghi delle ripetizioni per istruirsi. Invece Olivo, alla faccia della sua superiorità culturale, pretende che la moglie resti ignorante, perché più è ignorante, più sarà sottomessa. Però non perde occasione di mortificarla per la sua ignoranza. In compenso, lei non perde occasione per tradirlo, soprattutto con un giovane medico che ha conosciuto. Olivo, anzi, sospetta che i due siano in combutta tra loro per eliminarlo tramite un veleno o facendogli contrarre un'infezione. La situazione va sempre peggio e i due arrivano presto ai ferri corti. Ci arrivano letteralmente.
La notte del 16 maggio 1903, Olivo non si sente bene, si sveglia febbricitante. Sveglia la moglie e le ordina di preparargli qualcosa di caldo, col risultato che Ernestina lo manda a quel paese. Allora Olivo si alza e va in cucina a farsi una limonata. Mentre sta tagliando i limoni, Ernestina continua a insultarlo, dandogli dell'impostore, del vigliacco, del porco e dello stupido (termine che ai tempi suonava parecchio più offensivo di adesso) e arrivando a definire “una vacca” la defunta madre di Olivo, alla memoria della quale il figlio sembra nonostante tutto portare una autentica venerazione. A quel punto, Olivo lascia cadere il limone ma non il coltello, torna nella stanza da letto e minaccia la moglie agitando l'arma da taglio, lei reagisce e succede il patatrac. In seguito, Olivo racconterà di aver perso conoscenza e di essersi risvegliato, all'alba, tra le lenzuola sporche di sangue, accanto al cadavere sbudellato di Ernestina.
La febbre gli è passata (chissà, forse era un disturbo psicosomatico?), ora pensa lucidamente e decide il da farsi senza fretta. Porta il corpo di Ernestina in cucina e lo distende sul tavolo. E' domenica e non deve andare al lavoro, quindi esce, va dal barbiere, fa una gita fuori porta e mangia in una trattoria, si ritira dopo le 23 e passa la prima notte sul divano, chiedendosi se sia meglio costituirsi o ammazzarsi. La notte porta consiglio e, in questo caso, il consiglio è: nessuna delle due cose. Olivo si rende conto che nessuno nel palazzo ha visto o sentito nulla, nessuno sa nulla, nessuno si interessa a Ernestina che, per via del suo pessimo carattere, non ha amici in città. In più, aveva in programma di andare a trovare i suoi parenti nel biellese. Perché non attuare quel programma? Il giorno dopo, Olivo mette in una valigia gli effetti personali della moglie e esce raccontando a tutti che gliela va a spedire, perché lei è appena partita per Biella. Invece va in tram al mercato di Porta Venezia e, con singolare oculatezza, vende tutto, ricavandoci pure 12,50 lire.
Passa un altro paio di giorni, è primavera inoltrata e Olivo si rende conto che il cadavere comincia a puzzare. Decide allora di farlo sparire prima che i vicini possano avere dei sospetti. Non è cosa facile ma lui ha già un'idea. Con un coltello, apre la cassa toracica ed estrae il cuore, i polmoni e gli altri visceri. Li taglia a pezzi e, un po' per volta, li scarica nel cesso (la fortuna, rara a quel tempo, di potersi permettere una casa con bagno). Poi stacca la testa, le gambe e le braccia dal tronco, taglia via anche le mani e i piedi, impasta tutto con la naftalina per coprire l'odore e, così ridotti, i resti di Ernestina entrano in un baule. Infine, con l'acqua bollente, Olivo lava via tutte le tracce di sangue rimaste in casa. Ci mette 4 giorni a finire tutto il lavoro.
Il 23 maggio si prende un altro paio di giorni di permesso dal lavoro e se ne va in treno a Genova. Qui, si reca al porto e contatta un barcaiolo, dicendo che vuol fare una gita in darsena. Si porta dietro il pesante baule ma, a un certo punto del giro, succede uno strano incidente, perché il baule scivola da solo in mare. Almeno, questo è quanto dice Olivo al barcaiolo perplesso, che più tardi si ricorderà benissimo di quello strano uomo elegante dal comportamento enigmatico, e di quanto è accaduto.
Il Porto di Genova al tempo dei fatti

Infatti, dopo qualche giorno, mentre Olivo è tornato a Milano e ha ripreso la vita di sempre (prima di riprendere il treno per Milano, ha fatto uno strappo alla regola della sua tirchieria e si è andato a mangiare una ricca frittura di pesce), il baule riemerge, viene ripescato e, una volta visto il macabro contenuto, portato alla polizia. Gli inquirenti all'inizio brancolano nel buio, si pensa a un criminale come Jack Lo Squartatore o a sette sataniche, anche perché i resti sono irriconoscibili. Ma poi arriva la testimonianza del barcaiolo che si presenta spontaneamente, e il quadro comincia a farsi chiaro.
Solo che, in mancanza di identificazione, il corpo e l'assassino potrebbero venire da qualunque parte del Nord-Ovest. Tuttavia, la sicurezza di Olivo nella mancanza di sospetti da parte dei suoi vicini era mal riposta. Dopo qualche settimana, la polizia di Milano riceve una lettera anonima che denuncia la scomparsa di Ernestina Beccaro, ufficialmente recatasi a trovare i parenti a Biella. Per scrupolo, viene mandato un agente a Biella a controllare. E questo scopre che Ernestina, a Biella, non ci è mai arrivata. A quel punto, Olivo finisce sotto sorveglianza. Intanto, i vicini raccontano di come il matrimonio fosse tutt'altro che felice. Olivo non fa nulla che lo tradisca ma i poliziotti finiscono lo stesso per portarlo in questura.
Finché si tratta di rispondere alle domande, Olivo mantiene la sua versione: ma, quando i poliziotti gli rivelano che il corpo è stato ritrovato, cede e confessa.
Il processo si tiene nel giugno del 1904. La difesa punta subito sull'infermità mentale. Sostiene che Olivo ha mostrato una grande perizia e lucidità nella dissezione del corpo ma poi se n'è disfatto nel modo più stupido possibile, tant'è vero che è stato subito ritrovato. Una mente così irregolare non è quella di un uomo normale. Lo stesso Olivo trova offensiva questa linea di pensiero, e comunque anche la Corte la rigetta. Ma la sentenza sarà lo stesso sorprendente: Ernestina Beccaro, per i giudici, è morta per uno sfortunato incidente, Olivo non intendeva farle del male ma i fatti si sono svolti indipendentemente dalla sua volontà.
Durante il processo, Olivo si è fatto parecchi fans, tra cui molte signore dell'alta società, che seguono assiduamente le udienze ed ammirano la disinvoltura con cui, ogni volta che è chiamato in causa, tiene la scena, recitando come un personaggio di una tragedia classica il ruolo della vittima che diventa assassino solo per salvarsi. La sua mancata condanna è accolta con entusiasmo dal pubblico presente, che esulta. Dalle colonne dei giornali, alcune voci autorevoli si levano perplesse. Tra queste è particolarmente degna di nota quella del sociologo Scipio Sighele che, anticipando le teorie della criminologia moderna, sostiene che lo scempio del cadavere è una continuazione della violenza sul vivo, e quindi già da solo prova la volontà criminale.
Scipio Sighele (1868-1913)

La Cassazione però annulla il processo, che viene rifatto nel dicembre 1904. Stavolta, viene chiamato quale perito anche il celebre antropologo Cesare Lombroso, che ha l'occasione di mettere alla prova le sue sgangherate teorie sull'istinto criminale. Lombroso si esibisce in un confuso discorso dal quale nessuno capisce se Olivo debba essere considerato sano o malato di mente, assassino volontario o no. Ma anche questa Corte ha deciso che Olivo non può essere condannato. A parte la sua confessione e i coltelli che lui stesso ha prontamente fornito agli inquirenti quando questi glieli hanno richiesti, perfettamente puliti (e a quel tempo non c'era il Luminol per approfondire le indagini), non esiste nessuna prova materiale che il delitto sia stato effettivamente opera dell'imputato. Teoricamente, Ernestina Beccaro potrebbe essere stata uccisa e poi scarnificata da chiunque.
Cesare Lombroso (1835-1909)

Stavolta, i fans di Olivo possono esultare sul serio. L'imputato è definitivamente assolto. In seguito, Olivo troverà anche il modo di risposarsi, con un matrimonio senz'altro più felice del precedente (a provarlo è soprattutto il fatto che la moglie gli sopravviverà) e di passare qualche anno all'estero. In vecchiaia tornerà a Milano, dove vivrà come una celebrità del passato, intrattenendosi specialmente in Piazza San Fedele con passanti e curiosi che gli chiedevano di raccontare la sua storia. Muore il 18 dicembre 1942.
Non si contano gli scrittori italiani che hanno ripreso questa storia. Citiamo solo i casi più significativi. Nel 1966, realizzando per il Corriere d'Informazione un supplemento di “nera” a fumetti, Dino Buzzati ne raccontò la storia con ironia, ma anche con molta sensibilità verso la figura della vittima. 
La copertina di I misteri di Milano, il testo a fumetti in cui Buzzati raccontò la vicenda

Nel 1988 la Bollati Boringhieri ha pubblicato, a cura di Ermanno Cavazzoni, il memoriale redatto da Olivo tra il primo e il secondo processo, intitolato Ira fatale – Autobiografia di un uxoricida, dal quale appaiono evidenti tutte le sue manie di grandezza letterarie (il testo è zeppo di citazioni poetiche e classiche, spesso poste a sproposito) e il suo inarrivabile istrionismo.
La copertina di Ira fatale

In tempi più recenti, l'artista e studioso di Criminologia Roberto Paparella ha ricostruito in cera il contenuto del baule di Alberto Olivo in base ai verbali redatti dalla polizia. Le immagini, nonostante il loro indubbio valore artistico, sono piuttosto impressionanti e non è il caso di sbatterle in faccia ai lettori. Possono peraltro essere visionate da chi vuole a questo link: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10207088712593448&set=pcb.10207088725873780&type=3