lunedì 6 giugno 2016

Ben prima di Cogne, Novi Ligure e Avetrana: il delitto di Alberto Olivo

Si è fuori strada se si pensa che la tv e le sue trasmissioni di più infimo livello, quelle che non disdegnano di ricorrere alla più becera pornografia dei sentimenti mettendo sullo stesso piano vittime e assassini pur di far crescere l'audience, abbiano inventato qualcosa di nuovo. Si può dire, al massimo, che abbiano allargato la diffusione di una tendenza che già esisteva nella società.
Un tempo, i delitti come quelli arci-noti di Cogne, Novi Ligure, Avetrana ecc, erano diffusi nella società esattamente come lo sono adesso. Forse un po' di più per via dell'analfabetismo e dell'abbrutimento che ne consegue: ma, tolti questi dettagli, non si vedono particolari differenze. I delitti maturati in ambito familiare, specie se borghese, erano in tutto e per tutto identici a quelli attuali, e così era anche il clamore che destavano, con il pubblico che li seguiva appassionandosene, dividendosi tra innocentisti e colpevolisti; mentre la Giustizia procedeva non seguendo tanto una filosofia del Diritto più o meno universale, ma soprattutto i pregiudizi del tempo. Come del resto è sempre stato, e sempre sarà.
Un domani, dunque, i giudici del processo Franzoni saranno forse considerati con lo stesso metro che ora adoperiamo, letteralmente sbigottiti, nel giudicare quelli del processo Olivo del 1904. E, forse, quando arriverà quel momento, la gente comune sarà sconvolta dall'idea di delitti che noi oggi troveremmo sostanzialmente giustificati, esattamente come noi oggi siamo sconvolti dal femminicidio che, al tempo di Olivo, era considerato qualcosa di più o meno normale. E, chissà, forse passeremo noi per retrogradi.
Ma ora raccontiamo la storia.
Alberto Olivo nasce a Udine il 2 giugno 1856 e vive una giovinezza normale nella zona di porta Aquileia. L'unica stranezza è (forse) il rapporto tra i suoi genitori: padre mingherlino e timido, madre formosa e passionale. La famiglia è comunque abbastanza stabile e benestante da farlo studiare fino a terminare il liceo. Infatti, Olivo sarà sempre appassionato di Matematica, Letteratura e Poesia, fino a proporsi anche come autore di liriche, senza successo. La sua vita, però, è tutt'altro che fallimentare. Trova presto un ottimo impiego da contabile nella ditta di porcellane Richard Ginori, dove arriverà a guadagnare lo stipendio di 175 lire mensili (una cifra, per quel tempo) e nel 1885 si trasferisce a Milano, dove va a vivere in via Macello, che oggi si chiama via Modestino.
Il Macello a Milano, vicino al quale abitava Alberto Olivo

Dieci anni dopo, commette quello che si rivelerà il più grande errore della sua vita: sposa una donna simile alla madre, ma più rozza, una contadina biellese trasferitasi in città per andare a servizio, Ernestina Beccaro, che ha 18 anni meno di lui e se l'è preso, evidentemente, per innalzarsi socialmente. Il matrimonio, va da sé, non funziona da subito. Passi per le differenze di età, di carattere e di interessi, che si potrebbero appianare con la buona volontà e l'affetto; ma l'incredibile e inspiegabile tirchieria di Olivo esaspera la moglie fino a tirare fuori il lato peggiore di questa. E sono litigi all'ultimo sangue, ogni giorno.
I protagonisti della vicenda in un disegno di Dino Buzzati e un sonetto di Alberto Olivo

Qualche studioso moderno ha visto in Ernestina Beccaro anche uno spirito istintivamente, coraggiosamente protofemminista. Semianalfabeta al momento del matrimonio, non pretende che il marito la copra di regali lussuosi ma che la faccia studiare, che le paghi delle ripetizioni per istruirsi. Invece Olivo, alla faccia della sua superiorità culturale, pretende che la moglie resti ignorante, perché più è ignorante, più sarà sottomessa. Però non perde occasione di mortificarla per la sua ignoranza. In compenso, lei non perde occasione per tradirlo, soprattutto con un giovane medico che ha conosciuto. Olivo, anzi, sospetta che i due siano in combutta tra loro per eliminarlo tramite un veleno o facendogli contrarre un'infezione. La situazione va sempre peggio e i due arrivano presto ai ferri corti. Ci arrivano letteralmente.
La notte del 16 maggio 1903, Olivo non si sente bene, si sveglia febbricitante. Sveglia la moglie e le ordina di preparargli qualcosa di caldo, col risultato che Ernestina lo manda a quel paese. Allora Olivo si alza e va in cucina a farsi una limonata. Mentre sta tagliando i limoni, Ernestina continua a insultarlo, dandogli dell'impostore, del vigliacco, del porco e dello stupido (termine che ai tempi suonava parecchio più offensivo di adesso) e arrivando a definire “una vacca” la defunta madre di Olivo, alla memoria della quale il figlio sembra nonostante tutto portare una autentica venerazione. A quel punto, Olivo lascia cadere il limone ma non il coltello, torna nella stanza da letto e minaccia la moglie agitando l'arma da taglio, lei reagisce e succede il patatrac. In seguito, Olivo racconterà di aver perso conoscenza e di essersi risvegliato, all'alba, tra le lenzuola sporche di sangue, accanto al cadavere sbudellato di Ernestina.
La febbre gli è passata (chissà, forse era un disturbo psicosomatico?), ora pensa lucidamente e decide il da farsi senza fretta. Porta il corpo di Ernestina in cucina e lo distende sul tavolo. E' domenica e non deve andare al lavoro, quindi esce, va dal barbiere, fa una gita fuori porta e mangia in una trattoria, si ritira dopo le 23 e passa la prima notte sul divano, chiedendosi se sia meglio costituirsi o ammazzarsi. La notte porta consiglio e, in questo caso, il consiglio è: nessuna delle due cose. Olivo si rende conto che nessuno nel palazzo ha visto o sentito nulla, nessuno sa nulla, nessuno si interessa a Ernestina che, per via del suo pessimo carattere, non ha amici in città. In più, aveva in programma di andare a trovare i suoi parenti nel biellese. Perché non attuare quel programma? Il giorno dopo, Olivo mette in una valigia gli effetti personali della moglie e esce raccontando a tutti che gliela va a spedire, perché lei è appena partita per Biella. Invece va in tram al mercato di Porta Venezia e, con singolare oculatezza, vende tutto, ricavandoci pure 12,50 lire.
Passa un altro paio di giorni, è primavera inoltrata e Olivo si rende conto che il cadavere comincia a puzzare. Decide allora di farlo sparire prima che i vicini possano avere dei sospetti. Non è cosa facile ma lui ha già un'idea. Con un coltello, apre la cassa toracica ed estrae il cuore, i polmoni e gli altri visceri. Li taglia a pezzi e, un po' per volta, li scarica nel cesso (la fortuna, rara a quel tempo, di potersi permettere una casa con bagno). Poi stacca la testa, le gambe e le braccia dal tronco, taglia via anche le mani e i piedi, impasta tutto con la naftalina per coprire l'odore e, così ridotti, i resti di Ernestina entrano in un baule. Infine, con l'acqua bollente, Olivo lava via tutte le tracce di sangue rimaste in casa. Ci mette 4 giorni a finire tutto il lavoro.
Il 23 maggio si prende un altro paio di giorni di permesso dal lavoro e se ne va in treno a Genova. Qui, si reca al porto e contatta un barcaiolo, dicendo che vuol fare una gita in darsena. Si porta dietro il pesante baule ma, a un certo punto del giro, succede uno strano incidente, perché il baule scivola da solo in mare. Almeno, questo è quanto dice Olivo al barcaiolo perplesso, che più tardi si ricorderà benissimo di quello strano uomo elegante dal comportamento enigmatico, e di quanto è accaduto.
Il Porto di Genova al tempo dei fatti

Infatti, dopo qualche giorno, mentre Olivo è tornato a Milano e ha ripreso la vita di sempre (prima di riprendere il treno per Milano, ha fatto uno strappo alla regola della sua tirchieria e si è andato a mangiare una ricca frittura di pesce), il baule riemerge, viene ripescato e, una volta visto il macabro contenuto, portato alla polizia. Gli inquirenti all'inizio brancolano nel buio, si pensa a un criminale come Jack Lo Squartatore o a sette sataniche, anche perché i resti sono irriconoscibili. Ma poi arriva la testimonianza del barcaiolo che si presenta spontaneamente, e il quadro comincia a farsi chiaro.
Solo che, in mancanza di identificazione, il corpo e l'assassino potrebbero venire da qualunque parte del Nord-Ovest. Tuttavia, la sicurezza di Olivo nella mancanza di sospetti da parte dei suoi vicini era mal riposta. Dopo qualche settimana, la polizia di Milano riceve una lettera anonima che denuncia la scomparsa di Ernestina Beccaro, ufficialmente recatasi a trovare i parenti a Biella. Per scrupolo, viene mandato un agente a Biella a controllare. E questo scopre che Ernestina, a Biella, non ci è mai arrivata. A quel punto, Olivo finisce sotto sorveglianza. Intanto, i vicini raccontano di come il matrimonio fosse tutt'altro che felice. Olivo non fa nulla che lo tradisca ma i poliziotti finiscono lo stesso per portarlo in questura.
Finché si tratta di rispondere alle domande, Olivo mantiene la sua versione: ma, quando i poliziotti gli rivelano che il corpo è stato ritrovato, cede e confessa.
Il processo si tiene nel giugno del 1904. La difesa punta subito sull'infermità mentale. Sostiene che Olivo ha mostrato una grande perizia e lucidità nella dissezione del corpo ma poi se n'è disfatto nel modo più stupido possibile, tant'è vero che è stato subito ritrovato. Una mente così irregolare non è quella di un uomo normale. Lo stesso Olivo trova offensiva questa linea di pensiero, e comunque anche la Corte la rigetta. Ma la sentenza sarà lo stesso sorprendente: Ernestina Beccaro, per i giudici, è morta per uno sfortunato incidente, Olivo non intendeva farle del male ma i fatti si sono svolti indipendentemente dalla sua volontà.
Durante il processo, Olivo si è fatto parecchi fans, tra cui molte signore dell'alta società, che seguono assiduamente le udienze ed ammirano la disinvoltura con cui, ogni volta che è chiamato in causa, tiene la scena, recitando come un personaggio di una tragedia classica il ruolo della vittima che diventa assassino solo per salvarsi. La sua mancata condanna è accolta con entusiasmo dal pubblico presente, che esulta. Dalle colonne dei giornali, alcune voci autorevoli si levano perplesse. Tra queste è particolarmente degna di nota quella del sociologo Scipio Sighele che, anticipando le teorie della criminologia moderna, sostiene che lo scempio del cadavere è una continuazione della violenza sul vivo, e quindi già da solo prova la volontà criminale.
Scipio Sighele (1868-1913)

La Cassazione però annulla il processo, che viene rifatto nel dicembre 1904. Stavolta, viene chiamato quale perito anche il celebre antropologo Cesare Lombroso, che ha l'occasione di mettere alla prova le sue sgangherate teorie sull'istinto criminale. Lombroso si esibisce in un confuso discorso dal quale nessuno capisce se Olivo debba essere considerato sano o malato di mente, assassino volontario o no. Ma anche questa Corte ha deciso che Olivo non può essere condannato. A parte la sua confessione e i coltelli che lui stesso ha prontamente fornito agli inquirenti quando questi glieli hanno richiesti, perfettamente puliti (e a quel tempo non c'era il Luminol per approfondire le indagini), non esiste nessuna prova materiale che il delitto sia stato effettivamente opera dell'imputato. Teoricamente, Ernestina Beccaro potrebbe essere stata uccisa e poi scarnificata da chiunque.
Cesare Lombroso (1835-1909)

Stavolta, i fans di Olivo possono esultare sul serio. L'imputato è definitivamente assolto. In seguito, Olivo troverà anche il modo di risposarsi, con un matrimonio senz'altro più felice del precedente (a provarlo è soprattutto il fatto che la moglie gli sopravviverà) e di passare qualche anno all'estero. In vecchiaia tornerà a Milano, dove vivrà come una celebrità del passato, intrattenendosi specialmente in Piazza San Fedele con passanti e curiosi che gli chiedevano di raccontare la sua storia. Muore il 18 dicembre 1942.
Non si contano gli scrittori italiani che hanno ripreso questa storia. Citiamo solo i casi più significativi. Nel 1966, realizzando per il Corriere d'Informazione un supplemento di “nera” a fumetti, Dino Buzzati ne raccontò la storia con ironia, ma anche con molta sensibilità verso la figura della vittima. 
La copertina di I misteri di Milano, il testo a fumetti in cui Buzzati raccontò la vicenda

Nel 1988 la Bollati Boringhieri ha pubblicato, a cura di Ermanno Cavazzoni, il memoriale redatto da Olivo tra il primo e il secondo processo, intitolato Ira fatale – Autobiografia di un uxoricida, dal quale appaiono evidenti tutte le sue manie di grandezza letterarie (il testo è zeppo di citazioni poetiche e classiche, spesso poste a sproposito) e il suo inarrivabile istrionismo.
La copertina di Ira fatale

In tempi più recenti, l'artista e studioso di Criminologia Roberto Paparella ha ricostruito in cera il contenuto del baule di Alberto Olivo in base ai verbali redatti dalla polizia. Le immagini, nonostante il loro indubbio valore artistico, sono piuttosto impressionanti e non è il caso di sbatterle in faccia ai lettori. Possono peraltro essere visionate da chi vuole a questo link: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10207088712593448&set=pcb.10207088725873780&type=3




1 commento:

  1. Interessante e pieno di curiosità. Io ho messo questa vicenda alla base del mio romanzo "Gli occhi neri che non guardo più". Non c'era nessun libro ne parlasse prima.

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