Si è fuori strada se si pensa che la
tv e le sue trasmissioni di più infimo livello, quelle che non
disdegnano di ricorrere alla più becera pornografia dei sentimenti
mettendo sullo stesso piano vittime e assassini pur di far crescere
l'audience, abbiano inventato qualcosa di nuovo. Si può dire, al
massimo, che abbiano allargato la diffusione di una tendenza che già
esisteva nella società.
Un tempo, i delitti come quelli
arci-noti di Cogne, Novi Ligure, Avetrana ecc, erano diffusi nella
società esattamente come lo sono adesso. Forse un po' di più per
via dell'analfabetismo e dell'abbrutimento che ne consegue: ma, tolti
questi dettagli, non si vedono particolari differenze. I delitti
maturati in ambito familiare, specie se borghese, erano in tutto e
per tutto identici a quelli attuali, e così era anche il clamore che
destavano, con il pubblico che li seguiva appassionandosene,
dividendosi tra innocentisti e colpevolisti; mentre la Giustizia
procedeva non seguendo tanto una filosofia del Diritto più o meno
universale, ma soprattutto i pregiudizi del tempo. Come del resto è
sempre stato, e sempre sarà.
Un domani, dunque, i giudici del
processo Franzoni saranno forse considerati con lo stesso metro che
ora adoperiamo, letteralmente sbigottiti, nel giudicare quelli del
processo Olivo del 1904. E, forse, quando arriverà quel momento, la
gente comune sarà sconvolta dall'idea di delitti che noi oggi
troveremmo sostanzialmente giustificati, esattamente come noi oggi
siamo sconvolti dal femminicidio che, al tempo di Olivo, era
considerato qualcosa di più o meno normale. E, chissà, forse
passeremo noi per retrogradi.
Ma ora raccontiamo la storia.
Alberto Olivo nasce a Udine il 2 giugno
1856 e vive una giovinezza normale nella zona di porta Aquileia.
L'unica stranezza è (forse) il rapporto tra i suoi genitori: padre
mingherlino e timido, madre formosa e passionale. La famiglia è
comunque abbastanza stabile e benestante da farlo studiare fino a
terminare il liceo. Infatti, Olivo sarà sempre appassionato di
Matematica, Letteratura e Poesia, fino a proporsi anche come autore
di liriche, senza successo. La sua vita, però, è tutt'altro che
fallimentare. Trova presto un ottimo impiego da contabile nella ditta
di porcellane Richard Ginori, dove arriverà a guadagnare lo
stipendio di 175 lire mensili (una cifra, per quel tempo) e nel 1885
si trasferisce a Milano, dove va a vivere in via Macello, che oggi si
chiama via Modestino.
Il Macello a Milano, vicino al quale abitava Alberto Olivo
Dieci anni dopo, commette quello che si
rivelerà il più grande errore della sua vita: sposa una donna
simile alla madre, ma più rozza, una contadina biellese trasferitasi
in città per andare a servizio, Ernestina Beccaro, che ha 18 anni
meno di lui e se l'è preso, evidentemente, per innalzarsi
socialmente. Il matrimonio, va da sé, non funziona da subito. Passi
per le differenze di età, di carattere e di interessi, che si
potrebbero appianare con la buona volontà e l'affetto; ma
l'incredibile e inspiegabile tirchieria di Olivo esaspera la moglie
fino a tirare fuori il lato peggiore di questa. E sono litigi
all'ultimo sangue, ogni giorno.
I protagonisti della vicenda in un disegno di Dino Buzzati e un sonetto di Alberto Olivo
Qualche studioso moderno ha visto in
Ernestina Beccaro anche uno spirito istintivamente, coraggiosamente
protofemminista. Semianalfabeta al momento del matrimonio, non
pretende che il marito la copra di regali lussuosi ma che la faccia
studiare, che le paghi delle ripetizioni per istruirsi. Invece Olivo,
alla faccia della sua superiorità culturale, pretende che la moglie
resti ignorante, perché più è ignorante, più sarà sottomessa.
Però non perde occasione di mortificarla per la sua ignoranza. In
compenso, lei non perde occasione per tradirlo, soprattutto con un
giovane medico che ha conosciuto. Olivo, anzi, sospetta che i due
siano in combutta tra loro per eliminarlo tramite un veleno o
facendogli contrarre un'infezione. La situazione va sempre peggio e i
due arrivano presto ai ferri corti. Ci arrivano letteralmente.
La notte del 16 maggio 1903, Olivo non
si sente bene, si sveglia febbricitante. Sveglia la moglie e le
ordina di preparargli qualcosa di caldo, col risultato che Ernestina
lo manda a quel paese. Allora Olivo si alza e va in cucina a farsi
una limonata. Mentre sta tagliando i limoni, Ernestina continua a
insultarlo, dandogli dell'impostore, del vigliacco, del porco e dello
stupido (termine che ai tempi suonava parecchio più offensivo di
adesso) e arrivando a definire “una vacca” la defunta madre di
Olivo, alla memoria della quale il figlio sembra nonostante tutto
portare una autentica venerazione. A quel punto, Olivo lascia cadere
il limone ma non il coltello, torna nella stanza da letto e minaccia
la moglie agitando l'arma da taglio, lei reagisce e succede il
patatrac. In seguito, Olivo racconterà di aver perso conoscenza e di
essersi risvegliato, all'alba, tra le lenzuola sporche di sangue,
accanto al cadavere sbudellato di Ernestina.
La febbre gli è passata (chissà,
forse era un disturbo psicosomatico?), ora pensa lucidamente e decide
il da farsi senza fretta. Porta il corpo di Ernestina in cucina e lo
distende sul tavolo. E' domenica e non deve andare al lavoro, quindi
esce, va dal barbiere, fa una gita fuori porta e mangia in una
trattoria, si ritira dopo le 23 e passa la prima notte sul divano,
chiedendosi se sia meglio costituirsi o ammazzarsi. La notte porta
consiglio e, in questo caso, il consiglio è: nessuna delle due cose.
Olivo si rende conto che nessuno nel palazzo ha visto o sentito
nulla, nessuno sa nulla, nessuno si interessa a Ernestina che, per
via del suo pessimo carattere, non ha amici in città. In più, aveva
in programma di andare a trovare i suoi parenti nel biellese. Perché
non attuare quel programma? Il giorno dopo, Olivo mette in una
valigia gli effetti personali della moglie e esce raccontando a tutti
che gliela va a spedire, perché lei è appena partita per Biella.
Invece va in tram al mercato di Porta Venezia e, con singolare
oculatezza, vende tutto, ricavandoci pure 12,50 lire.
Passa un altro paio di giorni, è
primavera inoltrata e Olivo si rende conto che il cadavere comincia a
puzzare. Decide allora di farlo sparire prima che i vicini possano
avere dei sospetti. Non è cosa facile ma lui ha già un'idea. Con un
coltello, apre la cassa toracica ed estrae il cuore, i polmoni e gli
altri visceri. Li taglia a pezzi e, un po' per volta, li scarica nel
cesso (la fortuna, rara a quel tempo, di potersi permettere una casa
con bagno). Poi stacca la testa, le gambe e le braccia dal tronco,
taglia via anche le mani e i piedi, impasta tutto con la naftalina
per coprire l'odore e, così ridotti, i resti di Ernestina entrano in
un baule. Infine, con l'acqua bollente, Olivo lava via tutte le
tracce di sangue rimaste in casa. Ci mette 4 giorni a finire tutto il
lavoro.
Il 23 maggio si prende un altro paio di
giorni di permesso dal lavoro e se ne va in treno a Genova. Qui, si
reca al porto e contatta un barcaiolo, dicendo che vuol fare una gita
in darsena. Si porta dietro il pesante baule ma, a un certo punto del
giro, succede uno strano incidente, perché il baule scivola da solo
in mare. Almeno, questo è quanto dice Olivo al barcaiolo perplesso,
che più tardi si ricorderà benissimo di quello strano uomo elegante
dal comportamento enigmatico, e di quanto è accaduto.
Il Porto di Genova al tempo dei fatti
Infatti, dopo qualche giorno, mentre
Olivo è tornato a Milano e ha ripreso la vita di sempre (prima di
riprendere il treno per Milano, ha fatto uno strappo alla regola
della sua tirchieria e si è andato a mangiare una ricca frittura di
pesce), il baule riemerge, viene ripescato e, una volta visto il
macabro contenuto, portato alla polizia. Gli inquirenti all'inizio
brancolano nel buio, si pensa a un criminale come Jack Lo Squartatore
o a sette sataniche, anche perché i resti sono irriconoscibili. Ma
poi arriva la testimonianza del barcaiolo che si presenta
spontaneamente, e il quadro comincia a farsi chiaro.
Solo che, in mancanza di
identificazione, il corpo e l'assassino potrebbero venire da
qualunque parte del Nord-Ovest. Tuttavia, la sicurezza di Olivo nella
mancanza di sospetti da parte dei suoi vicini era mal riposta. Dopo
qualche settimana, la polizia di Milano riceve una lettera anonima
che denuncia la scomparsa di Ernestina Beccaro, ufficialmente
recatasi a trovare i parenti a Biella. Per scrupolo, viene mandato un
agente a Biella a controllare. E questo scopre che Ernestina, a
Biella, non ci è mai arrivata. A quel punto, Olivo finisce sotto
sorveglianza. Intanto, i vicini raccontano di come il matrimonio
fosse tutt'altro che felice. Olivo non fa nulla che lo tradisca ma i
poliziotti finiscono lo stesso per portarlo in questura.
Finché si tratta di rispondere alle
domande, Olivo mantiene la sua versione: ma, quando i poliziotti gli
rivelano che il corpo è stato ritrovato, cede e confessa.
Il processo si tiene nel giugno del
1904. La difesa punta subito sull'infermità mentale. Sostiene che
Olivo ha mostrato una grande perizia e lucidità nella dissezione del
corpo ma poi se n'è disfatto nel modo più stupido possibile, tant'è
vero che è stato subito ritrovato. Una mente così irregolare non è
quella di un uomo normale. Lo stesso Olivo trova offensiva questa
linea di pensiero, e comunque anche la Corte la rigetta. Ma la
sentenza sarà lo stesso sorprendente: Ernestina Beccaro, per i
giudici, è morta per uno sfortunato incidente, Olivo non intendeva
farle del male ma i fatti si sono svolti indipendentemente dalla sua
volontà.
Durante il processo, Olivo si è fatto
parecchi fans, tra cui molte signore dell'alta società, che seguono
assiduamente le udienze ed ammirano la disinvoltura con cui, ogni
volta che è chiamato in causa, tiene la scena, recitando come un
personaggio di una tragedia classica il ruolo della vittima che
diventa assassino solo per salvarsi. La sua mancata condanna è
accolta con entusiasmo dal pubblico presente, che esulta. Dalle
colonne dei giornali, alcune voci autorevoli si levano perplesse. Tra
queste è particolarmente degna di nota quella del sociologo Scipio
Sighele che, anticipando le teorie della criminologia moderna,
sostiene che lo scempio del cadavere è una continuazione della
violenza sul vivo, e quindi già da solo prova la volontà criminale.
Scipio Sighele (1868-1913)
La Cassazione però annulla il
processo, che viene rifatto nel dicembre 1904. Stavolta, viene
chiamato quale perito anche il celebre antropologo Cesare Lombroso,
che ha l'occasione di mettere alla prova le sue sgangherate teorie
sull'istinto criminale. Lombroso si esibisce in un confuso discorso
dal quale nessuno capisce se Olivo debba essere considerato sano o
malato di mente, assassino volontario o no. Ma anche questa Corte ha
deciso che Olivo non può essere condannato. A parte la sua
confessione e i coltelli che lui stesso ha prontamente fornito agli
inquirenti quando questi glieli hanno richiesti, perfettamente puliti
(e a quel tempo non c'era il Luminol per approfondire le indagini),
non esiste nessuna prova materiale che il delitto sia stato
effettivamente opera dell'imputato. Teoricamente, Ernestina Beccaro
potrebbe essere stata uccisa e poi scarnificata da chiunque.
Cesare Lombroso (1835-1909)
Stavolta, i fans di Olivo possono
esultare sul serio. L'imputato è definitivamente assolto. In
seguito, Olivo troverà anche il modo di risposarsi, con un
matrimonio senz'altro più felice del precedente (a provarlo è
soprattutto il fatto che la moglie gli sopravviverà) e di passare
qualche anno all'estero. In vecchiaia tornerà a Milano, dove vivrà
come una celebrità del passato, intrattenendosi specialmente in
Piazza San Fedele con passanti e curiosi che gli chiedevano di
raccontare la sua storia. Muore il 18 dicembre 1942.
Non si contano gli scrittori italiani
che hanno ripreso questa storia. Citiamo solo i casi più
significativi. Nel 1966, realizzando per il Corriere d'Informazione
un supplemento di “nera” a fumetti, Dino Buzzati ne raccontò la
storia con ironia, ma anche con molta sensibilità verso la figura
della vittima.
La copertina di I misteri di Milano, il testo a fumetti in cui Buzzati raccontò la vicenda
Nel 1988 la Bollati Boringhieri ha pubblicato, a cura
di Ermanno Cavazzoni, il memoriale redatto da Olivo tra il primo e il
secondo processo, intitolato Ira fatale – Autobiografia di un
uxoricida, dal quale appaiono evidenti tutte le sue manie di
grandezza letterarie (il testo è zeppo di citazioni poetiche e
classiche, spesso poste a sproposito) e il suo inarrivabile
istrionismo.
La copertina di Ira fatale
In tempi più recenti, l'artista e studioso di
Criminologia Roberto Paparella ha ricostruito in cera il contenuto
del baule di Alberto Olivo in base ai verbali redatti dalla polizia.
Le immagini, nonostante il loro indubbio valore artistico, sono
piuttosto impressionanti e non è il caso di sbatterle in faccia ai
lettori. Possono peraltro essere visionate da chi vuole a questo
link:
https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10207088712593448&set=pcb.10207088725873780&type=3
Interessante e pieno di curiosità. Io ho messo questa vicenda alla base del mio romanzo "Gli occhi neri che non guardo più". Non c'era nessun libro ne parlasse prima.
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