venerdì 28 febbraio 2020

Barbara Graham prima di "I want to live!"


Una persona dal destino segnato, reso evidente sin dalla nascita: ma questo destino prenderà la forma di un caso giudiziario che, grazie anche alla cassa di risonanza dei mass media, avrà un enorme seguito di pubblico.
Non è una storia di oggi, ma di molto tempo fa. Alla protagonista, se fosse viva, mancherebbe poco per diventare centenaria. Invece, visse poco meno di 32 anni.
Nacque come Barbara Elaine Ford il 26 giugno 1923 a Oakland, California, figlia della prostituta diciassettenne Hortense Ford, di origine portoghese (il nome originario era Furtado) e di un padre rimasto sempre sconosciuto. Dopo un anno e mezzo, nel 1925, da un altro uomo, la madre ebbe un'altra figlia, Claire; poi sposò un certo Joseph Wood e nel 1930 ebbe un terzo figlio, chiamato anche lui Joseph. Alla nascita del bambino, però, il padre era già morto e la madre non poté fare altro che riprendere la sua vita di prima, entrando e uscendo di galera.

Hortense Ford negli anni '50, con il nipote Tommy

Barbara fu separata dalla madre per la prima volta poco dopo la nascita della sorella, quando la donna finì in carcere e finì allevata da estranei che si curarono poco di lei, ragione per cui ebbe un'istruzione limitata e finì presto per mettersi nei guai. Appena entrata nell'adolescenza, si ritrovò condannata al riformatorio per vagabondaggio e fu rinchiusa nello stesso istituto correzionale in cui era stata più volte reclusa anche la madre, il Ventura State School for Girls, dove restò fino al 1939.
Uscita dal riformatorio, benché avesse solo 16 anni, sposò un marinaio della Guardia Costiera, Harry Kielhammer, che aveva 10 anni più di lei. Nonostante la nascita di due figli, il matrimonio non fu felice e i due si separarono già nel 1942. Harry ottenne la custodia dei bambini.
Durante la guerra, Barbara esercitò la prostituzione inizialmente presso il porto di Oakland, una importante base militare per la guerra nel Pacifico; successivamente si spostò a Long Beanch, a san Diego e a San Pedro, sempre sulla costa pacifica, venendo puntualmente arrestata e schedata dalla polizia.
Barbara Graham

Dopo la guerra, andò a esercitare sempre lo stesso mestiere, ma stavolta in un bordello, a San Francisco. Il bordello era una istituzione clandestina ma di gran lusso, la cui tenutaria era una certa Sally Stanford, una donna molto attiva socialmente e politicamente grazie ai numerosi agganci che le garantiva questa attività. Il locale era frequentato da artisti soprattutto del cinema e da politici di tutte le correnti. Alla fine, negli anni '70, Sally Stanford sarebbe stata eletta sindaco di Sausalito.
Sally Stanford (1903-82)

Barbara non fu altrettanto fortunata. Finì a frequentare tipi molto poco raccomandabili che la introdussero negli ambienti della droga e del gioco d'azzardo. Si mise di nuovo nei guai testimoniando il falso in favore di due di essi durante un processo e si beccò una condanna a cinque anni che scontò nella prigione statale femminile di Teachapi.
Di nuovo libera, nel 1953, andò a Los Angeles, dove provò a lavorare come inserviente in un ospedale e come cameriera. Sposò un barista, Henry Graham, ed ebbe da lui un altro figlio, Thomas.
Barbara Graham con il marito Henry e il figlio Tommy

Graham era un tossico e uno spacciatore e le fece conoscere altri soggetti ancora meno raccomandabili di quelli frequentati fino a quel momento. Per uno di questi, Emmett Perkins, Barbara lasciò il marito. Perkins era fissato su una vedova sessantaquattrenne di Burbank, Mabel Monohan, che a suo dire teneva in casa grandi quantità di denaro contante e di gioielli, in gran parte frutto delle attività dell'ex genero, Tutor Scherer, noto giocatore d'azzardo di Las Vegas. Perkins formò quindi una banda per entare nella casa della donna e fare il colpo. Oltre a lui e a Barbara, c'erano altri pregiudicati dalla fedina penale lunga chilometri: Jack Santo, John True e Baxter Shorter.
Jack Santo, Emmett Perkins e Barbara Graham

Baxter Shorter

John True

La vittima, Mabel Monahan


La sera del 9 marzo 1953, Barbara si presentò alla casa della donna, chiedendo di poter usare il telefono. Appena la Monahan aprì la porta, spuntarono dal buio gli altri 4 ed entrarono con lei, chiudendosi la porta alle spalle.
Su quanto accadde subito dopo, abbiamo le versioni rilasciate al processo da tutti i diretti interessati tranne due che nel frattempo erano morti. Pare che True, Santo e Perkins picchiarono la Monahan per farle dire dove tenesse nascosti il denaro e i gioielli, ma la donna non parlò. Quando entrò in casa anche Shorter, che avrebbe dovuto aprire la cassaforte, Barbara teneva una pistola in mano ed esortava i suoi complici a colpire più forte. Shorter, nonostante fosse pregiudicato per omicidio, non voleva essere coinvolto in un delitto così stupido e si rivoltò contro gli altri, obbligandoli a smettere di colpire la donna e ad allentare il bavaglio che sembrava sul punto di soffocarla.
La banda mise a soqquadro la casa in cerca della refurtiva, ma non trovò nulla. Per ironia della sorte, nessuno guardò in un armadio che si trovava proprio lì, nel punto dove avevano lasciato la Monahan moribonda, nel quale era custodita una valigia piena di soldi (circa 15.000 dollari).
Quando si resero conto che la Monahan non respirava più, i cinque fuggirono. Una volta rimasto solo, Shorter raggiunse una cabina telefonica e chiamò un'ambulanza per la Monahan, dando l'indirizzo corretto ma dimenticando di precisare che era a Burbank e non a Los Angeles. Infatti, l'ambulanza non arrivò mai a destinazione e il cadavere della Monahan fu scoperto solo due giorni dopo, dal guardiniere che aveva sentito il cane della donna uggiolare dall'interno della casa e aveva scoperto la porta lasciata socchiusa. La polizia mise una taglia di 5000 dollari sui responsabili del delitto.
Già il 26 marzo furono effettuati i primi cinque fermi, tra noti delinquenti della zona. Quattro non c'entravano nulla, ma il quinto era Shorter, che capì subito come la situazione potesse portarlo alla camera a gas e spifferò tutto quanto sapeva sul delitto, affermando di aver fatto solo da palo al resto della banda. Non si sa bene perché, i poliziotti decisero di lasciarlo libero mentre raccoglievano le prove per incastrare gli altri. Inoltre, qualcuno in centrale dovette dire una parola di troppo in giro perché, subito dopo il suo rilascio, Shorter scomparve. Il suo corpo non fu mai ritrovato.
Ma i poliziotti arrivarono lo stesso ai responsabili e li arrestarono nel mese di maggio. Durante gli interrogatori, il primo a cedere fu John True, cui fu proposto un accordo: sarebbe scampato alla pena capitale se si fosse prestato ad accusare gli altri. True non se lo fece ripetere due volte.
Secondo la versione di True, il ruolo di Barbara nel delitto sarebbe stato fondamentale. Sarebbe stata lei a colpire più volte alla testa la Monahan con il calcio della pistola, fino a fratturarle il cranio, e ancora lei le avrebbe coperto la testa con una federa di cuscino, rendendole impossibile la respirazione.
Barbara Graham durante gli interrogatori

In realtà, a parte la testimonianza di True, l'accusa non aveva nulla contro Barbara che, a differenza di Santo e Perkins, non aveva lasciato tracce sulla scena del crimine. Tuttavia, Barbara si complicò la situazione da sola, cadendo in una trappola tesale dalla polizia. Le fecero credere, attraverso una sua compagna di cella cui fu promessa una riduzione della pena, che qualcuno fosse disposto a pagare 25.000 dollari per scagionarla attraverso la falsa testimonianza di un'altra detenuta, che avrebbe giurato di essere stata con lei per tutto il tempo, la notte del delitto. Barbara accettò di incontrare questa falsa testimone e discusse con lei dell'alibi, ammettendo ripetutamente di aver partecipato alla rapina, senza sapere che la donna in realtà era una poliziotta e stava registrando la conversazione.
Una volta ascoltata in aula, la registrazione demolì completamente la credibilità di Barbara, che non fu più creduta da nessuno quando provò a rispondere alle accuse.
Shirley Olson, la poliziotta che incastrò Barbara Graham in carcere

L'opinione pubblica, che l'aveva soprannominata “Bloody Babs”, la detestò da subito, esercitando continue pressioni perché fosse condannata. In questo, c'entra sicuramente anche il fatto che fu assistita da un difensore d'ufficio, poco avvezzo a suggerirle una giusta strategia nel presentarsi. L'essere l'unica donna della banda poteva giocare a suo favore se si fosse mostrata come una figura passiva e facilmente influenzabile, ma Barbara tenne per tutto il processo degli atteggiamenti spavaldi, vestendo in modo vistoso, fumando continuamente e assumendo un atteggiamento polemico con gli accusatori. Quando le chiesero conto del suo tentativo di procurarsi un falso alibi, rispose: “Siete mai stati disperati? Sapete cosa significa non sapere cosa fare?”
Barbara Graham durante il processo

Barbara Graham con l'avvocato d'ufficio, Jack Hardy

Fu condannata a morte insieme a Santo e a Perkins. Passò diversi mesi in un carcere femminile di Chino aspettando l'esito dell'appello, ma la condanna fu confermata. Il 2 giugno 1955 fu trasferita a San Quentin, dove si sarebbe svolta l'esecuzione, tramite camera a gas.
Questa era pianificata per le 10 del mattino seguente ma, per rispondere (negativamente) alle domande di grazia, il governatore Goodwin Knight la posticipò prima alle 10,45 e poi alle 11,30. I rinvii resero Barbara isterica, fino a farle gridare: “Perché continuate a torturarmi?” A fatica, padre Edward Dingbuerg, cappellano cattolico del carcere, riuscì a calmarla. Alle 11,28 fu chiusa nella camera a gas. Si era preparata con eleganza, come per un'uscita serale, ma chiese di essere bendata per non vedere i testimoni dell'esecuzione. Un addetto, Joe Ferretti, le suggerì di trattenere il fiato e poi fare un respiro profondo per abbreviare i tempi, ma lei gli rispose: “E tu come fai a saperlo?”, insultandolo. Le sue ultime parole furono: “Le brave persone sono sempre così sicure di avere ragione”. Alle 11,36 le capsule di cianuro furono sganciate. Barbara si dibatté per qualche minuto, poi sembrò abbandonarsi all'indietro, per poi ricadere in avanti. Alle 11,42 fu dichiarata morta. Fu poi sepolta in un cimitero di San Rafael.
Durante il processo, tra i pochi a sostenere le sue ragioni, c'era stato un personagio tra i meno probabili per una cosa del genere, il giornalista Edward Montgomery del “San Francisco Examiner”. 

Edward S. Montgomery (1910-92), premio Pulitzer 1951 

Montgomery era un falco repubblicano che collaborava con l'FBI, di solito si schierava a favore di pene duramente esemplari per i delinquenti e, in seguito, avrebbe scritto un delirante opuscolo in cui accusava gli studenti contestatori degli anni '60 di essere al soldo dei comunisti russi. Secondo alcune interpretazioni, Montgomery era talmente attratto da Barbara che provò in tutti i modi a salvarla. Non essendoci riuscito, portò allora la sua storia a Walter Wager, un produttore che realizzava spesso film di grande impegno civile e si prestò a collaborare alla sceneggiatura di quello che sarebbe poi diventato il più importante film americano contro la pena capitale, “I want to live”, un vero capolavoro diretto dal grande Robert Wise e interpretato da Susan Hayward, che diede una prova eccezionale e vinse l'Oscar come migliore attrice protagonista nel 1959. Ironia della sorte, anche la Hayward apparteneva politicamente all'area dei falchi repubblicani.




La locandina e tre immagini del film

Il film contiene alcune inesattezze, dovute allo sforzo di presentare la figura di Barbara nel modo più favorevole possibile, ma ricostruisce abbastanza fedelmente la vicenda. Nella sequenza dell'esecuzione, sembra citare un classico del giornalismo americano, la foto scattata da Tom Howard con la fotocamera legata alla caviglia per nasconderla alle guardie, durante l'esecuzione sulla sedia elettrica dell'uxoricida Rurh Brown Snyder, il 12 gennaio 1928 a New York.

L'esecuzione nel film

L'esecuzione di Ruth Brown Snyder






mercoledì 12 febbraio 2020

Variazioni su un tema principale: i romanzi di Day Keene


Per uno scrittore, essere tradotto in più lingue e vendere milioni di copie significa ottenere successo, ma questo successo può non essere garanzia di fama imperitura. Molti autori di bestseller sono finiti dimenticati in un tempo relativamente breve e, anche tra quelli che hanno firmato diversi libri conosciuti più o meno in tutto il mondo, ce ne sono alcuni la cui notorietà si è esaurita rapidamente dopo la loro scomparsa, perfino quando i loro libri hanno continuato a essere ristampati.
Questo destino è particolarmente comune tra gli autori di narrativa popolare, che raramente incontrano biografi, saggisti e studiosi accademici che si impegnano a tenerne viva la memoria.
Un caso esemplare è quello dell'americano Day Keene, nato a Chicago il 28 marzo 1904 e morto di cancro a Los Angeles il 9 gennaio 1969. Il suo vero nome era Gunnar Hjerstedt, di chiare origini scandinave, ma non era un nome molto adatto a figurare sulle copertine dei tascabili, quindi, dopo i primi sei racconti pubblicati tra il 1931 e il 1935, lo cambiò in Day Keene, pseudonimo ricavato dal nome di sua madre, Daisy Keeney. Sembra che da giovane sia stato attore teatrale in compagnie itineranti.
Day Keene nella mezza età 

Come Day Keene, tra il 1940 e il 1970, pubblicò qualcosa come 214 racconti (l'ultimo nel 1964, ma la gran parte tra il 1940 e il 1952) e 56 romanzi (il primo dei quali nel 1949), tra cui 49 thriller (gli altri dovrebbero essere tutti dei western).








Copertine originali di alcuni romanzi di Keene

Si sa che visse a lungo in Florida, che ebbe diversi amici scrittori come Harry Whittington, Gil Brewer, Robert Turner, Talmage Powell, Bill Cox e John D. Macdonald. Con alcuni di essi, divise lo stesso agente letterario, Donald McCampbell, molto ben ammanigliato nelle case editrici che pubblicavano tascabili.
Gil Brewer (1922-83)

Harry Whittington (1915-89)

John D. Macdonald (1916-86)

Talmage Powell (1920-2000)

Keene scrisse molto anche per la radio, in particolare un programma di gialli intitolato The First Nighter, per il quale firmò almeno 8 sceneggiature tra il 1935 e il 1937. Almeno una sceneggiatura la scrisse anche per un altro programma di gialli, Behind the Camera Lines, nel 1936. Collaborò poi ad almeno 410 sceneggiature della soap opera, sempre radiofonica, Kitty Keene, Incorporated (trasmessa dal 1937 al 1941), che aveva al centro la figura di una donna detective. Infine, fu tra gli sceneggiatori della celebre serie Little Orphan Annie.
Anche suo figlio Albert James Hjerstedt fu un autore di thriller pubblicato dai suoi stessi editori già alla fine degli anni '50, con lo pseudonimo di Al James. Al James non è stato però mai famoso quanto il padre ed è morto nel 2001.




Copertine di alcuni romanzi di Al James

Vista la sua copiosissima produzione, non ci si può aspettare che Keene sia un autore di grande continuità quanto a valore letterario. In effetti, alcuni suoi romanzi appaiono piuttosto stereotipati anche per gli standard del tempo. Il suo schema narrativo più ricorrente è quello in cui un uomo dal passato perbene si ritrova improvvisamente in grossi guai e, mentre cerca di tirarsene fuori, incontra una donna molto affascinante e di solito completamente priva di scrupoli, che a volte lo aiuta e a volte finisce per rappresentare la sua definitiva rovina. Su questo tema abbastanza prevedibile, tuttavia, Keene riesce a elaborare trame che nonostante tutto sono davvero avvincenti, sia per lo spessore dei personaggi, sia per la straordinaria tensione che riesce a mantenere dalla prima all'ultima pagina del romanzo. La violenza e il sesso non mancano mai, ma non c'è nessun fastidioso autocompiacimento nel descriverli. Anzi, spesso anche i più duri tra i personaggi di Keene mostrano sorprendenti aspetti umani davanti allo spettacolo di un cadavere o di fronte a donne sottoposte a violenza da parte di qualche delinquente.
In particolare, nella sua produzione, ci sono due romanzi notevolmente riusciti, in cui lo “schema Keene” sembra sovrapporsi a tematiche tipiche di autori più noti, soprattutto Wade Miller e Cornell Woolrich. Stiamo parlando di Home is the sailor, uscito nel 1952, e di Joy House, uscito nel 1954. Entrambi questi romanzi hanno avuto più edizioni italiane: Home is the sailor è uscito come Il marinaio la cerca con Longanesi nel 1957 e come Bionda cerca killer con Mondadori nel 1968; Joy House è uscito in due edizioni Mondadori nel 1964 e nel 1972, con il titolo Crepi il migliore, e come La casa buia nel 2005 con Hobby & Work.



Edizioni americane e italiane di Home is the sailor







Edizioni americane e italiane di Joy House

Il protagonista di Home is the sailor è Swede Nelson, un ufficiale della marina mercantile che sbarca il California con l'intenzione di investire tutti i suoi risparmi nell'acquisto di una fattoria nel natio Minnesota. Fisicamente possente, troppo facile alle bevute e alle scazzottate, Swede finisce completamente ubriaco già dalla prima sera a terra, e viene salvato da una rapina dalla giovane Corliss Mason, una ragazza proprietaria di un motel, “Il pappagallo verde”, che lo ospita finché Swede si riprende. Tra i due nasce del tenero, anche perché Corliss lo assiste quando Swede finisce arrestato in seguito a una rissa in cui, per difendersi, ammazza accidentalmente un uomo. A scagionarlo definitivamente dovrebbe essere il barista del locale in cui si è svolta la rissa, Jerry Wolkowsyk, ma questo è un tipo piuttosto viscido e sfuggente. Corliss si occupa di convincerlo ma, durante una ennesima sbronza di Swede, Jerry aggredisce e stupra la donna. Appena lo viene a sapere, Swede piomba sull'uomo e lo ammazza a cazzotti.
La situazione di Swede è complicata, ma Corliss gli suggerisce di far sparire il corpo di Jerry e la macchina dello stesso, facendoli volare in mare da una scogliera. Nè lo stupro né il successivo omicidio hanno avuto testimoni e, benché Swede rischi di cadere di sotto anche lui, la manovra riesce.
Swede si stabilisce nel motel di Corliss, i due progettano di sposarsi, ma qualcosa non va. Il comportamento del personale del motel, in particolare di una cameriera di nome Mamie, che avvisa più volte Swede di stare attento, mettono l'uomo in tensione. Swede comincia a sospettare che Corliss e Jerry se la intendessero da prima e che la donna si sia servita di lui per eliminare un complice sempre più scomodo. Corliss è molto elusiva al riguardo, la tensione tra i due aumenta e, una sera, dopo una ulteriore sbronza, Swede la aggredisce, davanti a diversi testimoni. Tuttavia, dopo poco, l'alcol ingurgitato gli fa perdere conoscenza.
Qunado Swede rinviene, Corliss è scomparsa e ci sono in giro parecchie tracce che sembrano indicare che è stata uccisa, da Swede stesso. La polizia lo arresta e lo interroga, sulla scomparsa sia di Jerry sia di Corliss, mettendolo al corrente del fatto che i due erano probabilmente i rapitori e gli assassini di un giovane debosciato erede di una grande fortuna, raggirato e convinto a partire per un viaggio da cui non è più tornato, da una spogliarellista di nome Sophia Palanka. Dopo il ritrovamento del cadavere del giovane in una palude, tutte le polizie del Paese stanno cercando la Palanka e il suo complice Lippy Salz.
Swede non si compromette più di tanto, riesce a fuggire mentre lo stanno trasferendo in prigione e, interrogando a forza di botte i dipendenti del motel “Il pappagallo verde”, riesce a sapere dove si è nascosta Corliss, che ha solo inscenato la propria morte. La raggiunge nell'albergo di San Diego in cui si trova ma, quando se la trova di nuovo davanti, si sente in colpa sia per l'aggressione cui l'ha sottoposta, sia per non aver saputo difenderla da Jerry la notte dello stupro e la perdona per averlo messo nei guai. I due decidono di fuggire insieme ma, prima di poter mettere in atto il proposito, si rendono conto che la polizia ha solo finto di lasciar scappare Swede, mentre in realtà lo ha seguito per arrivare al nascondiglio di Corliss. La donna, convinta che Swede l'abbia tradita, tenta di scappare dalla scala di emergenza, ma perde l'equilibrio e cade di sotto, sfracellandosi al suolo.
Swede, scagionato da tutte le accuse ma disperato per averla persa, regala tutti i soldi che gli sono rimasti alla cameriera Mame, l'unica che lo abbia sempre aiutato, che ora è ferita in ospedale dopo averlo coperto nella sua fuga, e si imbarca di nuovo.
Meno movimentato ma sicuramente più originale, e sorretto da un'atmosfera claustrofobica dall'inizio alla fine, è Joy House. Qui troviamo un giovane avvocato californiano, Mark Harris, in fuga dalla polizia che vuole arrestarlo per il suo coinvolgimento nelle attività di una banda di mafiosi italoamericani e dai mafiosi stessi, che vogliono fargli la pelle dopo che lui ha ammazzato accidentalmente la sorella del boss, con cui era sposato.
Mark approda in una Chicago invernale spazzata dal vento gelido, dove si fa passare per un vagabondo, un suo ex cliente di nome Philip Thomas, un poveraccio morto in un incidente ferroviario senza lasciare parenti o amici. Viene ospitato nel ricovero di un filantropo, tale Neilson, e qui conosce una benefattrice, una volontaria che si reca lì due volte alla settimana per preparare da mangiare ai senzatetto. Si chiama May Hill ed è una ricca, giovane vedova. Ad accompagnarla c'è sempre la cameriera Alice.
La Hill gli dedica parecchie attenzioni, ha notato che non è il solito relitto umano, e dopo poco gli offre un impiego come autista. Per prendere servizio, Mark deve trasferirsi a casa della donna, una magione enorme e lugubre, che scricchiola in continuazione e ha tutte le finestre sigillate da assi di legno inchiodate. Tra i due, si stabilisce una certa intimità, anche se devono passare un po' di giorni prima che la situazione si concretizzi. A unirli è soprattutto uno strano incidente: un balordo riesce a entrare da una finestra e si presenta come se volesse rapinare la donna, ma Mark lo affronta e lo uccide. Dato che nessuno dei due intende chiamare la polizia, Mark e May escono di notte per gettare il cadavere nel fiume che sta per gelare e farlo sparire.
May propone a Mark di sposarlo e di fuggire all'estero con lei. Racconta di essere la vedova di un ricco commerciante, molto più anziano di lei, che fu ucciso in casa tre anni prima durante una rapina, ad opera di una banda capeggiata dall'ex amante di May stessa, Link Morgan, che dopo averle ucciso il marito la stuprò. Poi sparì, forse fuggito chissà dove, forse ucciso dai suoi complici che però, una volta arrestati, non hanno saputo dire dove si trovano né lui né la refurtiva.
Questo ricordo e il senso di colpa per i suoi precedenti rapporti con il bandito hanno indotto poi May a chiudersi in casa con la sola compagnia di Alice, senza avere più rapporti con nessuno tranne che con Neilson, che l'ha aiutata a sostenere un difficile periodo di recupero attraverso la fede religiosa.
Mark ci crede poco, ma sta al gioco perché a sua volta non vede l'ora di andarsene. Una volta giunto in Sudamerica, nessuno di quelli che lo cercano potrà più trovarlo. Perciò accetta il matrimonio e accompagna May in giro per i preparativi, finendo anche immortalato da una fotografia della stampa mentre, all'aeroporto per procurarsi i biglietti del viaggio, si trova accidentalmente dietro una coppia di Vip appena sbarcata.
Finalmente arriva il momento del matrimonio, celebrato da Neilson. Tornati a casa, quando la partenza sembra imminente, Mark si ritrova davanti a un improvviso cambiamento. May gli punta la pistola addosso e gli chiede scusa per averlo coinvolto in quella situazione, ma non aveva alternative. Alice è stata sempre sua complice, faceva già parte della banda che compì la rapina e l'omicidio. Dall'ombra spunta fuori Link Morgan, che è stato nascosto nella casa per tre anni e assomiglia moltissimo a Mark, tant'è vero che ognuno dei due potrebbe passare per l'altro.
Ma, un attimo prima che i due procedano all'eliminazione del terzo incomodo, qualcuno bussa alla porta e Alice, dopo aver aperto, riferisce che qualcuno vuole parlare con il signor Philip Thomas. Ormai preso nella parte, Link Morgan va a vedere di chi si tratta: sono i sicari della mafia italoamericana che cercano Mark, e lo fanno fuori senza pensarci due volte.
In conclusione, Mark resta prigioniero di quella casa, alla mercé di May e Alice, soprattutto della prima che continua a usarlo come trastullo notturno. L'unica sua speranza è che non si stanchi di lui prima che il disgelo faccia emergere dal fiume il corpo del balordo ucciso, che è avvolto in un lenzuolo con il monogramma di May.
Da questo romanzo è stato tratto, nel 1964, il film di René Clement Les Félins, giunto in Italia con il titolo Crisantemi per un delitto. Si tratta di un discreto noir interpretato da Alain Delon, Jane Fonda, Lola Albright e André Oumansky, tuttavia notevolmente inferiore al romanzo perché lascia troppo spazio agli interpreti di cartello e non rende per nulla l'idea di cupezza e claustrofobia che è un elemento fondamentale della vicenda. Addirittura, l'azione viene spostata da Chicago alla Costa Azzurra. Alice (ribattezzata Melinda), da cameriera, diventa la nipote di May (ribattezzata Barbara) ed è il personaggio femminile più importante della storia. La presenza di Link (ribattezzato Vincent) nascosto nel palazzo (che diventa un castello) viene già svelata a metà film e Mark lo sa benissimo, tant'è vero che è lui a organizzare l'eliminazione di Vincent da parte dei sicari che lo braccano. I due colpi di scena finali sono utili a concludere bene il racconto, ma il confronto con il libro vede il film soccombere.


Locandine francese, americana e italiana di Crisantemi per un delitto