giovedì 28 settembre 2017

Il caso Nizzola

I primi anni del fascismo al potere in Italia sono, nonostante la fama di “pacificatori” di cui vorrebbero accreditarsi i nuovi capi, anni estremamente violenti, caratterizzati da un ininterrotto regolamento di conti. Non solo con l'opposizione, sempre più tenue, ma anche tra fascisti stessi, divisi in più fazioni in mezzo alle quali spiccano quella più vicina al Duce, incline al compromesso di governo con i detentori del capitale economico, e quella di marca più squadrista che sogna una rivoluzione radicale. Vincerà, com'è noto, la prima, ma non sarà una vittoria facile.
In questa situazione, matureranno diversi delitti su cui, nonostante il tanto tempo trascorso e il bavaglio imposto alla stampa, grazie alle carte giudiziarie, negli ultimi anni si sta finalmente facendo un po' di chiarezza.
Un piccolo volume di Roberto Garibbo, Il caso Nizzola, edito da Il melangolo, ricorda uno dei più imbarazzanti per il regime tra questi episodi, avvenuto a Genova nel 1926.
La copertina del libro

I fatti sono i seguenti: il 31 ottobre di quell'anno, mentre presenzia a una manifestazione a Bologna, Mussolini subisce un goffo tentativo di uccisione da parte di un ragazzino di 15 anni, Anteo Zamboni, che gli spara un colpo di pistola senza colpirlo. E' del tutto inverosimile l'idea che un ragazzo così giovane e inesperto, soprannominato Patata perché è un tontolone, possa aver concepito un piano simile da solo, ma la verità non si saprà mai, perché Anteo verrà linciato, nei minuti successivi, da alcuni fascisti dal passato notoriamente violento e criminale come Arconovaldo Bonacorsi (futuro massacratore di prigionieri a Maiorca durante la guerra civile spagnola) e Albino Volpi (uno del commando che due anni prima aveva assassinato Giacomo Matteotti), anche se la versione ufficiale sarà che “la folla presente ha fatto giustizia”.
Anteo Zamboni: le prime due immagini furono scattate durante l'autopsia del suo corpo

Mussolini a Bologna il 31 ottobre 1926: era domenica e inaugurò il nuovo stadio

Arconovaldo Bonacorsi (1898-1962)

L'orientamento di tutta la storiografia tranne quella di parte fascista è che il ragazzo sia stato armato da alcuni fascisti che intendevano forzare la mano del Duce e dell'opinione pubblica sull'approvazione di nuove leggi di pubblica sicurezza con cui lo Stato diventava ancora più autoritario (ripristino della pena capitale, istituzione di tribunali speciali, scioglimento di partiti d'opposizione, divieto di espatrio clandestino) e si zittiva l'opposizione chiudendone i giornali.
Le leggi invocate arriveranno prontamente, ma saranno precedute da una serie di violenze contro gli oppositori, che attraversa tutta l'Italia e, insieme a tanti danni, fa anche qualche vittima.
Uno degli episodi più importanti si verifica a Genova il giorno dopo, 1° novembre. Mentre il Vicesegretario del Partito Gerardo Bonelli, il federale Giovanni Pala e l'onorevole Ferruccio Lantini arringano la folla in Galleria Mazzini e in teatro l'attrice Emma Gramatica deplora l'avvenimento, un gruppo di squadristi assalta la Villetta Di Negro, dov'è la sede del giornale d'opposizione Il lavoro e la incendia, approfittando della latitanza della forza pubblica. Altri loro compari si recano invece in via Roma 10, dove c'è la casa dell'onorevole Francesco Rossi, editore del giornale e, non potendo forzare il portone per la presenza di alcuni finanzieri a presidiarlo, entrano all'interno passando dall'ingresso di un'agenzia di macchine da scrivere, che immette nella scala del caseggiato. Da lì, devastazione totale con distruzione e lancio dalla finestra di oggetti e mobili. La strada dovrà essere interdetta al traffico per alcuni giorni.
Giovanni Pala 

Ferruccio Lantini

La Villetta Di Negro, oggi

Francesco Rossi

via Roma, oggi

Anche se non c'è nessuna resistenza, vista anche l'assenza dei proprietari, il bilancio sarà pesante: 15 feriti e 2 morti, uno squadrista e un carabiniere.
La Procura, non asservita al regime, indaga e comincia ad arrestare un paio di fascisti. Le testimonianze non legate allo squadrismo concordano su un punto: il carabiniere (Elia Bernardini, tra l'altro un fascista della prima ora, fondatore del fascio di Migliarina) è stato ammazzato da uno squadrista che, sorpreso a rubare monete da una cassettiera, gli ha sparato alla schiena.
Lo squadrista assassino viene identificato come Vittorio Nizzola, uno dei 5 figli di un altro fascista della prima ora, Garibaldo, tutti squadristi e piuttosto violenti. Uno dei suoi fratelli, Marcello, lottatore di libera e di greco-romana, vincerà la medaglia d'argento ai Giochi Olimpici del 1932 e sarà campione europeo di categoria nel 1935. Finirà poi misteriosamente ucciso da un colpo di pistola sparatogli in strada il 22 febbraio 1947: si è parlato di “regolamento di conti politico” ma questa tesi non è supportata da nessuna prova.
Marcello Nizzola (1900-47). Di suo fratello Vittorio, sul web, non ci sono immagini

Vittorio Nizzola è latitante e lo resterà per sempre. I suoi amici lo nascondono, facendogli ripetutamente cambiare rifugio, mentre la polizia lo cerca. In particolare, a impegnarsi per lui è un certo Gigetto Masini, dirigente del sindacato fascista dei marittimi, un altro squadrista che non si fa scrupoli nemmeno davanti alla prospettiva di bastonare perfino i deputati fascisti che non la pensano come lui, tipo l'onorevole Massimo Rocca che poi lo ha denunciato, senza grandi risultati.
Masini, che si muove perfettamente a suo agio nel mondo di spie e informatori di cui il Porto pullula, procura al latitante un libretto d'imbarco trafugato da un suo scagnozzo di nome Provenzano, a nome di Franco Bruno, validato dalla Capitaneria di Savona. C'è l'ostacolo della visita medica, senza della quale non ci si può imbarcare: non si trova nessuno che voglia sostenerla al posto del Nizzola.
A sbrogliare la matassa, ci pensa un nuovo personaggio che si presenta all'improvviso con il nome falso di Tullio Gallegra. E' Paolo Gullo, un faccendiere ben ammanigliato in alto loco. Grazie ai suoi uffici, il 30 marzo 1927, Vittorio Nizzola, protetto da una scorta di squadristi, raggiunge al Porto il piroscafo Conte Verde in partenza per l'Argentina, passa la visita medica, firma l'ingaggio con il nome di Franco Bruno e parte per non tornare mai più. Pare che altri amici lo aiutino a far perdere le sue tracce all'arrivo.
Poco dopo, però, il vero Franco Bruno viene denunciato per diserzione, dato che risulta espatriato quando invece dovrebbe essere sotto le armi. Ma, sorpresa delle sorprese, il giudice competerente scopre subito che Franco Bruno sta effettivamente svolgendo il servizio militare e un altro è partito al suo posto, Vittorio Nizzola.
Se l'espatrio clandestino è punito severamente, questo vale anche per il suo favoreggiamento. Tanto più quando a espatriare è l'assassino di un carabiniere.
Risalire a Masini, da quel momento, è facile. Masini è arrestato il 10 agosto 1927. Da lui, le indagini portano ancora più in alto, dato che è un uomo di Gerardo Bonelli. E anche Bonelli viene arrestato, il 6 settembre successivo. Finisce in galera anche Gullo.
Nel processo, finiscono per essere coinvolti in tantissimi, pesci piccoli e pesci grandi. Ad incastrare Masini e Bonelli è una ragazza di 18 anni, un tempo ammiratrice di entrambi, Anita Regazzoni, che racconta di una riunione nella redazione del Giornale di Genova (fascista) cui parteciparono entrambi, in cui si parlò proprio di come aiutare gli squadristi che si erano messi nei guai il 1° novembre 1926.
Bonelli pretende di cavarsela attribuendo la sua “persecuzione” a un complotto massonico, ma nessuno lo prende sul serio. Saltano fuori un bel po' di testimoni, compresi dei passeggeri del Conte Verde da cui si apprende che Vittorio Nizzola è partito anche ben fornito di soldi, dei quali si ignora la provenienza.
Masini prova a difendere Nizzola sostenendo che avrebbe sparato al carabiniere avendolo scambiato per uno che poco prima stava colpendo alcuni suoi camerati feriti, ma nessuno gli crede.
La stampa fascista spara bordate di calunnie contro gli inflessibili giudici istruttori pensando di intimidirli, ma senza alcun risultato. Il processo si svolge dal 15 al 25 maggio 1929.
Si concluderà in primo grado con la condanna di tutti gli imputati, ma si ignora a quanti anni di reclusione, perché la sentenza stessa non è mai arrivata all'Archivio di Stato. Se ne conosce soltanto il dispositivo.
Mentre si sta preparando il processo d'appello, il 4 febbraio 1930, arriva l'amnistia concessa del Re in occasione del matrimonio del Principe ereditario.
Nonostante la loro evidente colpevolezza, né l'assassino del carabiniere né quelli che lo sottrassero alla giustizia pagheranno alcun conto.






sabato 16 settembre 2017

Delitto in casa Verdi

Nel 1981, lo scrittore e giornalista Maurizio Chierici, parmense, allora inviato del Corriere della Sera, si inimicò tutti i suoi concittadini, e anche gran parte di quelli della provincia, pubblicando un libro che toglieva il velo steso da oltre un secolo su una torbida vicenda, nella quale era coinvolto anche il compositore Giuseppe Verdi, gloria nazionale e soprattutto cittadina.
Giuseppe Verdi (1813-1901)

Eppure Chierici era stato prudente. Anziché proporre il risultato della sua inchiesta in forma di saggio, aveva preferito quella molto più prudente del romanzo, Quel delitto in casa Verdi, da cui il lettore poteva farsi un'idea della vicenda ma senza necessariamente trarre conclusioni definitive. L'escamotage gli era stato suggerito ad hoc dall'editore Giulio Einaudi, preoccupato di vedersi imporre querele o boicottaggi da qualche fanatico.
La prima edizione del libro

Maurizio Chierici

Ma nulla bastò a salvare Chierici dagli strali dei notabili e soprattutto dei politici locali. Il sindaco di Busseto, paese natale di Verdi, arrivò a scrivere al presidente Pertini chiedendo che a Chierici fosse revocata la cittadinanza italiana. Anche un bel po' di intellettuali di rigorosa passione verdiana (come Massimo Mila, che al Maestro aveva dedicato una imponente biografia degli anni giovanili) insorsero contro l'offesa che si faceva alla memoria di un monumento nazionale.
Chierici aveva lavorato soprattutto sugli archivi dei giornali locali, ben conservati e spesso molto più legati ai personaggi famosi di quanto si amerebbe credere (il principale, La Gazzetta di Parma, era addirittura di proprietà di Verdi stesso, che l'aveva comprato per favorire l'elezione al Senato del suo avvocato). Ovviamente, ne aveva ricavato solo versioni ufficiali, sempre piuttosto addomesticate.
Ma l'istinto del cronista gli aveva fatto intuire che la verità poteva trovarsi altrove. E, facendosi aiutare dalla Questura di Milano, era riuscito a rintracciare il diario di un anziano poliziotto parmense, Gaetano Franzoni che già aveva già tenuto sotto controllo il giovane Verdi per conto del Duca di Parma e Piacenza, e poi era stato arruolato nella neonata polizia del Regno d'Italia, e continuava a spiare Verdi per conto di quest'ultima, stando a Busseto sotto le mentite spoglie di un agronomo. Lui e un altro testimone, l'avvocato Francesco Barbuti, sono i primi ad avere dei sospetti su una vicenda che invece le autorità sembrano voler chiudere alla svelta, a ogni costo.
Ma, i fatti, quali sono?
Alle 14,15 di lunedì 26 settembre 1898, nella Villa Paradiso, la grande dimora di Giuseppe Verdi a Busseto, il nipote del Maestro (figlio della nipote Maria Filomena, adottata come figlia dopo la prematura scomparsa degli eredi legittimi), il diciottenne Angiolo Carrara, studente liceale, esplode un colpo di fucile che uccide una domestica, Giuseppa Belli (il nome, in alcuni documenti, sarà sbagliato in Peppina Bindi), ventitreenne.
Maria Filomena Verdi, madre del ragazzo

La villa che fu teatro del fatto

Quando arrivano i carabinieri per indagare sul fatto, il ragazzo è scomparso e i parenti affermano di non sapere dove sia. Tuttavia, in serata, viene rintracciato e arrestato da una pattuglia di carabinieri a caccia di anarchici e socialisti (sono anni di importanti rivendicazioni sociali, i fatti di Milano e le cannonate di Bava Beccaris risalgono a meno di cinque mesi prima). La famiglia intanto ha già fatto accorrere un avvocato e, già dal primo interrogatorio, si comprende quale sarà la strategia difensiva: il ragazzo afferma che il colpo è partito per sbaglio, mentre puliva il fucile.
Franzoni svela la sua identità di delegato di polizia e si affianca al comandante della stazione dei carabinieri, il vicebrigadiere Angelo Gaiba. Ma l'interrogatorio è condotto dal solo Franzoni, mentre Gaiba si limita a trascriverlo. Angiolo Carrara racconta di essere stato a caccia e di aver dimenticato di scaricare il fucile prima di tornare a casa. Qui, avrebbe lasciato il fucile sporco di fango nell'ingresso, chiedendo alla Belli di pulirlo, e poi sarebbe uscito di nuovo per andare in bicicletta a salutare il nonno, che era fuori e non vedeva da tre giorni. Al ritorno, avrebbe pranzato e poi si sarebbe accorto che il fucile era ancora da pulire, mentre la Belli si dedicava alla pulizia dei pavimenti e non se ne sarebbe occupata ancora per un po', ragione per cui avrebbe deciso di pulirlo da solo. E a quel punto, fatalmente, sarebbe partito il colpo.
Il solo testimone è un altro dipendente di Verdi, Alfonso Belli, fratello maggiore della vittima. Ma non ha visto nulla, era in un'altra stanza: ha sentito il colpo, è accorso, ha visto la sorella distesa per terra e il ragazzo chino su di lei, poi il ragazzo è fuggito.
Nonostante le proteste dell'avvocato Sanguinetti, legale della famiglia, e del padre del ragazzo, il dottor Alberto Carrara, Franzoni dispone che Angiolo sia custodito per la notte nelle celle della stazione dei carabinieri. Sarà rilasciato, in attesa del giudizio, la mattina dopo, dal procuratore Pessina.
Portato via il ragazzo, Franzoni interroga il medico che è stato inutilmente chiamato per soccorrere la vittima e ne ha esaminato il corpo, Alberto Manzi. Manzi gli fa una rivelazione illuminante: l'aspetto della ferita, alla base del collo, non fa pensare a un colpo sparato dalla distanza di qualche metro ma a un colpo esploso a bruciapelo.
Poi, Franzoni va a interrogare i parenti della Belli, senza cavarci fuori nulla: ma, al ritorno, viene avvicinato da un altro domestico, che gli rivela che la ragazza era incinta, in mezzo al personale lo sapevano tutti.
Allora Franzoni si reca a casa del dottor Manzi, che intanto è andato via, e gli chiede perché non lo ha scoperto quando ha esaminato il cadavere. Manzi risponde che non ha fatto nessuna autopsia, dato che nessuno l'ha ordinata. Franzoni dice che, con i nuovi sviluppi del caso, l'autopsia diventa necessaria, ma Manzi risponde che lui non farà nulla se non gli arrivano ordini superiori, e dubita che gliene arriveranno.
Pochi giorni dopo, Franzoni torna a Milano, dove resterà fino alla morte, nel 1904. Il suo confidente, l'avvocato Barbuti, gli sopravvive fino al 1909. Tra i due, nel tempo, non sembra ci siano stati scambi epistolari.

Angiolo Carrara Verdi, accusato di omicidio colposo, viene condannato in primo e secondo grado alla pena di 38 giorni di reclusione, 31 lire di multa e il ritiro del porto d'armi. La sentenza, però, sarà rapidamente condonata dal re Umberto I in persona, con un apposito, solenne decreto. In seguito sarà notaio, ufficiale dei bersaglieri, uomo politico. Le scarne note biografiche riportate da Wikipedia e da poche altre pagine (senza neppure un'immagine) omettono completamente la vicenda del delitto.

sabato 9 settembre 2017

Lonnie Athens e la socializzazione violenta

Tutti gli psicologi, i sociologi e i criminologi che si sono occupati dell'origine della violenza criminale, hanno sempre proposto teorie che spiegavano il fenomeno solo parzialmente, perché comprendevano parecchie eccezioni.
Esempi classici sono quello del bambino sottoposto a violenza che poi diviene a sua volta violento, o quello del violento che trova nella prepotenza inflitta agli altri il rimedio alla propria mancanza di autostima. Benché questi modelli possano andare bene per descrivere molti casi, è innegabile che al mondo esistono persone che non sono diventate violente pur subendo violenze da bambini e persone violente che hanno di se stesse una considerazione da semidei, pompata dal timore che ispirano negli altri.
La teoria più esaustiva sull'origine della violenza si deve al criminologo americano Lonnie H. Athens, nato a Richmond, Virginia, il 25 marzo 1949 e formatosi alla Virginia Tech e poi alla University State of Wisconsin, oggi docente di criminologia alla Seton Hall University.
Lonnie Athens



Alcuni libri di Athens

L'unico tradotto finora in Italiano

Athens è stato, prima che un ricercatore sul campo, uno studioso attentissimo al metodo, capace di riallacciarsi alla classica tradizione della filosofia neoempirista, in particolare a quella di David Hume (1711-76), dal quale ha mutuato il “metodo degli universali”, che identifica a posteriori la causa e l'effetto (in modo sempre provvisorio e perfettibile) tramite l'individuazione degli attributi specifici di una popolazione campione. In più, ha studiato a fondo la “psicologia sociale” di George Herbert Mead (1867-1931), uno dei padri della Sociologia, attentissimo a identificare e definire i rapporti tra l'individuo e l'ambiente in cui si forma e le loro conseguenze.
David Hume

George Herbert Mead

Dopo aver lavorato a lungo sulle popolazioni carcerarie di California e Iowa ed essere stato garante per la libertà vigilata e sulla parola in Virginia, Athens ha elaborato una nuova teoria sulla genesi della violenza nell'uomo, quella della socializzazione violenta.
La teoria di Athens, oltre a essere la più omnicomprensiva, è l'unica che si concentri anche sulla violenza istituzionalizzata, ossia quella di forze dell'ordine e forze armate, e non a caso è stata ripetutamente citata da storici che si sono occupati di stragi di civili da parte dei nazisti. In particolare, dall'americano Richard Rhodes (nato nel 1937) che ha studiato a fondo l'attività degli Einsatzgruppen, ossia i gruppi speciali di SS creati per procedere all'eliminazione di intere comunità di civili durante le invasioni sul fronte orientale, in Polonia e in Urss.
Richard Rhodes


Il libro di Rhodes sugli Einsatzgruppen e la sua traduzione in Italiano

Dalle interviste con migliaia di criminali violenti, Athens ha isolato la sequenza minima di esperienze sociali violente condivise in tutte le loro biografie e ha poi verificato come questa sequenza risultasse assente o incompleta nelle persone che, pur avendo sperimentato la violenza, non hanno poi commesso reati violenti.
E' abbastanza inquietante la rassomiglianza tra i momenti di questa sequenza e l'addestramento militare o paramilitare.
La socializzazione violenta è un processo che passa per quattro fasi, ognuna delle quali propedeutica all'altra, anche se i tempi di passaggio possono essere molto variabili:
  1. la Brutalizzazione;
  2. la Belligeranza;
  3. la Condotta Violenta;
  4. la Virulenza.
La prima è involontaria, viene inflitta al soggetto indipendentemente dalla sua volontà. Le altre sono il frutto di sue decisioni completamente libere.
Una volta completato il processo di socializzazione violenta, ogni ulteriore atto di violenza è un atto deliberato e non una semplice reazione a una qualsiasi provocazione.
La Brutalizzazione si compie attraverso tre tipi di esperienza, che si possono vivere in diversi modi e in diverse circostanze, in qualsiasi ordine: l'Assoggettamento violento (uso o minaccia di violenza per sottomettere il soggetto stesso al suo potere); il Raccapriccio (in seguito allo spettacolo dell'assoggettamento di persone simili o vicine al soggetto); l'Addestramento alla violenza (insegnamento da parte di altre persone violente a reagire violentemente alle provocazioni).
Si può notare come molti bambini, soprattutto cresciuti nei decenni passati (ma avviene ancora in molte parti del mondo), siano stati brutalizzati con la scusa di educarli. In alcuni Paesi, come la Germania della prima parte del XX secolo, queste forme di “educazione” erano la regola e godevano del massimo prestigio sociale, fatto che contribuì sicuramente a facilitare la diffusione di comportamenti criminali durante la dittatura di Hitler.
La Brutalizzazione è un trauma che lascia il soggetto privo di riferimenti e valori, demoralizzato, con una identità personale del tutto disgregata. L'obiettivo della brutalizzazione, infatti, è distruggere la personalità. Una volta raggiunto questo, il soggetto deve riorganizzarsi in qualche modo ed è la violenza stessa ad offrirgli la via più comoda per farlo.
Si passa dunque alla fase successiva, la Belligeranza.
Qui, il soggetto decide di ricorrere alla violenza come strumento per risolvere i suoi rapporti con gli altri. Non si tratta di una violenza incontrollata ma di una violenza che al soggetto stesso appare necessaria per mantenere il benessere fisico e psicologico di se stesso e delle persone care, in pratica una violenza puramente difensiva. Il soggetto belligerante è ancora abbastanza razionale da rendersi conto che l'uso della violenza espone comunque a pericoli, e non ha senso correrne se non si ha una buona ragione per farlo.
Il passaggio successivo è la Condotta Violenta. Qui, il soggetto comincia a perdere di vista i rischi che corre e a essere disposto a tutto pur di reagire a una qualsiasi provocazione. Tanto più grave è la provocazione, tanto più esplosiva potrà essere la sua violenza. E' un momento molto difficile per il soggetto stesso, perché mette alla prova la sua nuova identità personale, basata proprio sull'esercizio della violenza. Se questa non ottiene il successo sperato, il soggetto può rimanerne tanto demoralizzato da suicidarsi. In effetti, nei gruppi sociali caratterizzati da una forte potenzialità criminale, i tassi di violenza e di suicidio sono inversamente proporzionali, tanto che Athens si chiede se il suicidio possa essere una via alternativa per la risoluzione dei conflitti scatenati dalla Brutalizzazione.
Se invece questa Condotta Violenta ha successo, il soggetto ne rimane particolarmente soddisfatto. Non a caso, questo è uno stadio molto stabile, che non comporta necessariamente delle inclinazioni criminali. I Violenti Marginali che ne fanno parte concepiscono la violenza in chiave puramente difensiva e, in quest'ottica, possono essere perfettamente inseriti nella società nelle vesti di difensori delle sue istituzioni, come soldati o poliziotti. L'addestramento di questi è svolto bene quando li lascia in condizioni tali da non superare questo stadio.
Ma basta che arrivino alcuni elementi disturbanti, quali il Rinforzo sociale dell'identità violenta e la conseguente risoluzione a ricorrere a questa a prescindere dalle necessità difensive, per raggiungere il quarto stadio, quello criminale, della Virulenza.
L'esercizio della violenza per assoggettare gli altri può dare al soggetto delle sensazioni molto gratificanti, un senso di potenza che è raro ottenere in altri modi. Lo spettacolo del timore che si incute nel prossimo può essere inebriante, con un effetto simile a quello di una droga. A quel punto, il soggetto non può più aspettare l'occasione difensiva che gli dia la possibilità di provarlo, ma va a crearsi tutte le occasioni possibili attraverso l'uso di una violenza offensiva, indipendentemente da qualunque tipo di provocazione.
Si cade quindi in un comportamento stabilmente criminale, che le società non tollerano, non tanto per i suoi singoli effetti, quanto per i problemi che provoca all'organizzazione di cui il soggetto fa parte. Il soldato o il poliziotto criminale, oltre che essere pericolosi per le potenziali vittime, lo sono anche per i loro commilitoni, dato che la loro condotta non persegue più gli obiettivi del gruppo di cui fanno parte ma degli obiettivi del tutto personali, che non hanno nulla a che fare con i primi. In altri termini, è facile che non ubbidiscano più agli ordini. Per questo, nelle organizzazioni militari e paramilitari, la violenza criminale è sempre poco o nulla tollerata e spesso pesantemente sanzionata.

Il lavaggio del cervello propagandistico può facilitare il passaggio dalla Condotta Violenta alla Virulenza, semplicemente, facendo percepire come minacciose o pericolose delle persone che non lo sono affatto. Il soggetto si abitua alla Virulenza pur essendo convinto di praticare la violenza solo per difendersi. Ciò fu fatto in modo mostruosamente esemplare durante il regime nazista di Hitler, quando la propaganda indusse i tedeschi a vedere negli ebrei e in altre minoranze il capro espiatorio di ogni male. Con le conseguenze che conosciamo benissimo. 



Alcune immagini che documentano i crimini degli Einsatzgruppen, immortalati dagli stessi autori