I primi anni del fascismo al potere in
Italia sono, nonostante la fama di “pacificatori” di cui
vorrebbero accreditarsi i nuovi capi, anni estremamente violenti,
caratterizzati da un ininterrotto regolamento di conti. Non solo con
l'opposizione, sempre più tenue, ma anche tra fascisti stessi,
divisi in più fazioni in mezzo alle quali spiccano quella più
vicina al Duce, incline al compromesso di governo con i detentori del
capitale economico, e quella di marca più squadrista che sogna una
rivoluzione radicale. Vincerà, com'è noto, la prima, ma non sarà
una vittoria facile.
In questa situazione, matureranno
diversi delitti su cui, nonostante il tanto tempo trascorso e il
bavaglio imposto alla stampa, grazie alle carte giudiziarie, negli
ultimi anni si sta finalmente facendo un po' di chiarezza.
Un piccolo volume di Roberto Garibbo,
Il caso Nizzola, edito da Il melangolo, ricorda uno dei più
imbarazzanti per il regime tra questi episodi, avvenuto a Genova nel
1926.
I fatti sono i seguenti: il 31 ottobre
di quell'anno, mentre presenzia a una manifestazione a Bologna,
Mussolini subisce un goffo tentativo di uccisione da parte di un
ragazzino di 15 anni, Anteo Zamboni, che gli spara un colpo di
pistola senza colpirlo. E' del tutto inverosimile l'idea che un
ragazzo così giovane e inesperto, soprannominato Patata
perché è un tontolone, possa aver concepito un piano simile da
solo, ma la verità non si saprà mai, perché Anteo verrà linciato,
nei minuti successivi, da alcuni fascisti dal passato notoriamente
violento e criminale come Arconovaldo Bonacorsi (futuro massacratore
di prigionieri a Maiorca durante la guerra civile spagnola) e Albino
Volpi (uno del commando che due anni prima aveva assassinato Giacomo
Matteotti), anche se la versione ufficiale sarà che “la folla
presente ha fatto giustizia”.
Anteo Zamboni: le prime due immagini furono scattate durante l'autopsia del suo corpo
Mussolini a Bologna il 31 ottobre 1926: era domenica e inaugurò il nuovo stadio
Arconovaldo Bonacorsi (1898-1962)
L'orientamento di tutta la storiografia
tranne quella di parte fascista è che il ragazzo sia stato armato da
alcuni fascisti che intendevano forzare la mano del Duce e
dell'opinione pubblica sull'approvazione di nuove leggi di pubblica
sicurezza con cui lo Stato diventava ancora più autoritario
(ripristino della pena capitale, istituzione di tribunali speciali,
scioglimento di partiti d'opposizione, divieto di espatrio
clandestino) e si zittiva l'opposizione chiudendone i giornali.
Le leggi invocate arriveranno
prontamente, ma saranno precedute da una serie di violenze contro gli
oppositori, che attraversa tutta l'Italia e, insieme a tanti danni,
fa anche qualche vittima.
Uno degli episodi più importanti si
verifica a Genova il giorno dopo, 1° novembre. Mentre il
Vicesegretario del Partito Gerardo Bonelli, il federale Giovanni Pala
e l'onorevole Ferruccio Lantini arringano la folla in Galleria Mazzini
e in teatro l'attrice Emma Gramatica deplora l'avvenimento, un gruppo
di squadristi assalta la Villetta Di Negro, dov'è la sede del
giornale d'opposizione Il lavoro e la incendia, approfittando
della latitanza della forza pubblica. Altri loro compari si recano
invece in via Roma 10, dove c'è la casa dell'onorevole Francesco
Rossi, editore del giornale e, non potendo forzare il portone per la
presenza di alcuni finanzieri a presidiarlo, entrano all'interno
passando dall'ingresso di un'agenzia di macchine da scrivere, che
immette nella scala del caseggiato. Da lì, devastazione totale con
distruzione e lancio dalla finestra di oggetti e mobili. La strada
dovrà essere interdetta al traffico per alcuni giorni.
Giovanni Pala
Ferruccio Lantini
La Villetta Di Negro, oggi
Francesco Rossi
via Roma, oggi
Anche se non c'è nessuna resistenza,
vista anche l'assenza dei proprietari, il bilancio sarà pesante: 15
feriti e 2 morti, uno squadrista e un carabiniere.
La Procura, non asservita al regime,
indaga e comincia ad arrestare un paio di fascisti. Le testimonianze
non legate allo squadrismo concordano su un punto: il carabiniere
(Elia Bernardini, tra l'altro un fascista della prima ora, fondatore
del fascio di Migliarina) è stato ammazzato da uno squadrista che,
sorpreso a rubare monete da una cassettiera, gli ha sparato alla
schiena.
Lo squadrista assassino viene
identificato come Vittorio Nizzola, uno dei 5 figli di un altro
fascista della prima ora, Garibaldo, tutti squadristi e piuttosto
violenti. Uno dei suoi fratelli, Marcello, lottatore di libera e di
greco-romana, vincerà la medaglia d'argento ai Giochi Olimpici del
1932 e sarà campione europeo di categoria nel 1935. Finirà poi
misteriosamente ucciso da un colpo di pistola sparatogli in strada il
22 febbraio 1947: si è parlato di “regolamento di conti politico”
ma questa tesi non è supportata da nessuna prova.
Marcello Nizzola (1900-47). Di suo fratello Vittorio, sul web, non ci sono immagini
Vittorio Nizzola è latitante e lo
resterà per sempre. I suoi amici lo nascondono, facendogli
ripetutamente cambiare rifugio, mentre la polizia lo cerca. In
particolare, a impegnarsi per lui è un certo Gigetto Masini,
dirigente del sindacato fascista dei marittimi, un altro squadrista
che non si fa scrupoli nemmeno davanti alla prospettiva di bastonare
perfino i deputati fascisti che non la pensano come lui, tipo
l'onorevole Massimo Rocca che poi lo ha denunciato, senza grandi
risultati.
Masini, che si muove perfettamente a
suo agio nel mondo di spie e informatori di cui il Porto pullula,
procura al latitante un libretto d'imbarco trafugato da un suo
scagnozzo di nome Provenzano, a nome di Franco Bruno, validato dalla
Capitaneria di Savona. C'è l'ostacolo della visita medica, senza
della quale non ci si può imbarcare: non si trova nessuno che voglia
sostenerla al posto del Nizzola.
A sbrogliare la matassa, ci pensa un
nuovo personaggio che si presenta all'improvviso con il nome falso di
Tullio Gallegra. E' Paolo Gullo, un faccendiere ben ammanigliato in
alto loco. Grazie ai suoi uffici, il 30 marzo 1927, Vittorio Nizzola,
protetto da una scorta di squadristi, raggiunge al Porto il piroscafo
Conte Verde in partenza per l'Argentina, passa la visita
medica, firma l'ingaggio con il nome di Franco Bruno e parte per non
tornare mai più. Pare che altri amici lo aiutino a far perdere le
sue tracce all'arrivo.
Poco dopo, però, il vero Franco Bruno
viene denunciato per diserzione, dato che risulta espatriato quando
invece dovrebbe essere sotto le armi. Ma, sorpresa delle sorprese, il
giudice competerente scopre subito che Franco Bruno sta
effettivamente svolgendo il servizio militare e un altro è partito
al suo posto, Vittorio Nizzola.
Se l'espatrio clandestino è punito
severamente, questo vale anche per il suo favoreggiamento. Tanto più
quando a espatriare è l'assassino di un carabiniere.
Risalire a Masini, da quel momento, è
facile. Masini è arrestato il 10 agosto 1927. Da lui, le indagini
portano ancora più in alto, dato che è un uomo di Gerardo Bonelli.
E anche Bonelli viene arrestato, il 6 settembre successivo. Finisce
in galera anche Gullo.
Nel processo, finiscono per essere
coinvolti in tantissimi, pesci piccoli e pesci grandi. Ad incastrare
Masini e Bonelli è una ragazza di 18 anni, un tempo ammiratrice di
entrambi, Anita Regazzoni, che racconta di una riunione nella
redazione del Giornale di Genova (fascista) cui parteciparono
entrambi, in cui si parlò proprio di come aiutare gli squadristi che
si erano messi nei guai il 1° novembre 1926.
Bonelli pretende di cavarsela
attribuendo la sua “persecuzione” a un complotto massonico, ma
nessuno lo prende sul serio. Saltano fuori un bel po' di testimoni,
compresi dei passeggeri del Conte Verde da cui si apprende che
Vittorio Nizzola è partito anche ben fornito di soldi, dei quali si
ignora la provenienza.
Masini prova a difendere Nizzola
sostenendo che avrebbe sparato al carabiniere avendolo scambiato per
uno che poco prima stava colpendo alcuni suoi camerati feriti, ma
nessuno gli crede.
La stampa fascista spara bordate di
calunnie contro gli inflessibili giudici istruttori pensando di
intimidirli, ma senza alcun risultato. Il processo si svolge dal 15
al 25 maggio 1929.
Si concluderà in primo grado con la
condanna di tutti gli imputati, ma si ignora a quanti anni di
reclusione, perché la sentenza stessa non è mai arrivata
all'Archivio di Stato. Se ne conosce soltanto il dispositivo.
Mentre si sta preparando il processo
d'appello, il 4 febbraio 1930, arriva l'amnistia concessa del Re in
occasione del matrimonio del Principe ereditario.
Nonostante la loro evidente
colpevolezza, né l'assassino del carabiniere né quelli che lo
sottrassero alla giustizia pagheranno alcun conto.
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