Nel 1981, lo scrittore e giornalista
Maurizio Chierici, parmense, allora inviato del Corriere della Sera,
si inimicò tutti i suoi concittadini, e anche gran parte di quelli
della provincia, pubblicando un libro che toglieva il velo steso da
oltre un secolo su una torbida vicenda, nella quale era coinvolto
anche il compositore Giuseppe Verdi, gloria nazionale e soprattutto
cittadina.
Giuseppe Verdi (1813-1901)
Eppure Chierici era stato prudente.
Anziché proporre il risultato della sua inchiesta in forma di
saggio, aveva preferito quella molto più prudente del romanzo, Quel
delitto in casa Verdi, da cui il lettore poteva farsi un'idea della
vicenda ma senza necessariamente trarre conclusioni definitive.
L'escamotage gli era stato suggerito ad hoc dall'editore Giulio
Einaudi, preoccupato di vedersi imporre querele o boicottaggi da
qualche fanatico.
La prima edizione del libro
Maurizio Chierici
Ma nulla bastò a salvare Chierici
dagli strali dei notabili e soprattutto dei politici locali. Il
sindaco di Busseto, paese natale di Verdi, arrivò a scrivere al
presidente Pertini chiedendo che a Chierici fosse revocata la
cittadinanza italiana. Anche un bel po' di intellettuali di rigorosa
passione verdiana (come Massimo Mila, che al Maestro aveva dedicato
una imponente biografia degli anni giovanili) insorsero contro
l'offesa che si faceva alla memoria di un monumento nazionale.
Chierici aveva lavorato soprattutto
sugli archivi dei giornali locali, ben conservati e spesso molto più
legati ai personaggi famosi di quanto si amerebbe credere (il
principale, La Gazzetta di Parma, era addirittura di proprietà di
Verdi stesso, che l'aveva comprato per favorire l'elezione al Senato
del suo avvocato). Ovviamente, ne aveva ricavato solo versioni
ufficiali, sempre piuttosto addomesticate.
Ma l'istinto del cronista gli aveva
fatto intuire che la verità poteva trovarsi altrove. E, facendosi
aiutare dalla Questura di Milano, era riuscito a rintracciare il
diario di un anziano poliziotto parmense, Gaetano Franzoni che già
aveva già tenuto sotto controllo il giovane Verdi per conto del Duca
di Parma e Piacenza, e poi era stato arruolato nella neonata polizia
del Regno d'Italia, e continuava a spiare Verdi per conto di
quest'ultima, stando a Busseto sotto le mentite spoglie di un
agronomo. Lui e un altro testimone, l'avvocato Francesco Barbuti,
sono i primi ad avere dei sospetti su una vicenda che invece le
autorità sembrano voler chiudere alla svelta, a ogni costo.
Ma, i fatti, quali sono?
Alle 14,15 di lunedì 26 settembre
1898, nella Villa Paradiso, la grande dimora di Giuseppe Verdi a
Busseto, il nipote del Maestro (figlio della nipote Maria Filomena,
adottata come figlia dopo la prematura scomparsa degli eredi
legittimi), il diciottenne Angiolo Carrara, studente liceale, esplode
un colpo di fucile che uccide una domestica, Giuseppa Belli (il nome,
in alcuni documenti, sarà sbagliato in Peppina Bindi), ventitreenne.
Maria Filomena Verdi, madre del ragazzo
La villa che fu teatro del fatto
Quando arrivano i carabinieri per
indagare sul fatto, il ragazzo è scomparso e i parenti affermano di
non sapere dove sia. Tuttavia, in serata, viene rintracciato e
arrestato da una pattuglia di carabinieri a caccia di anarchici e
socialisti (sono anni di importanti rivendicazioni sociali, i fatti
di Milano e le cannonate di Bava Beccaris risalgono a meno di cinque
mesi prima). La famiglia intanto ha già fatto accorrere un avvocato
e, già dal primo interrogatorio, si comprende quale sarà la
strategia difensiva: il ragazzo afferma che il colpo è partito per
sbaglio, mentre puliva il fucile.
Franzoni svela la sua identità di
delegato di polizia e si affianca al comandante della stazione dei
carabinieri, il vicebrigadiere Angelo Gaiba. Ma l'interrogatorio è
condotto dal solo Franzoni, mentre Gaiba si limita a trascriverlo.
Angiolo Carrara racconta di essere stato a caccia e di aver
dimenticato di scaricare il fucile prima di tornare a casa. Qui,
avrebbe lasciato il fucile sporco di fango nell'ingresso, chiedendo
alla Belli di pulirlo, e poi sarebbe uscito di nuovo per andare in
bicicletta a salutare il nonno, che era fuori e non vedeva da tre
giorni. Al ritorno, avrebbe pranzato e poi si sarebbe accorto che il
fucile era ancora da pulire, mentre la Belli si dedicava alla pulizia
dei pavimenti e non se ne sarebbe occupata ancora per un po', ragione
per cui avrebbe deciso di pulirlo da solo. E a quel punto,
fatalmente, sarebbe partito il colpo.
Il solo testimone è un altro
dipendente di Verdi, Alfonso Belli, fratello maggiore della vittima.
Ma non ha visto nulla, era in un'altra stanza: ha sentito il colpo, è
accorso, ha visto la sorella distesa per terra e il ragazzo chino su
di lei, poi il ragazzo è fuggito.
Nonostante le proteste dell'avvocato
Sanguinetti, legale della famiglia, e del padre del ragazzo, il
dottor Alberto Carrara, Franzoni dispone che Angiolo sia custodito
per la notte nelle celle della stazione dei carabinieri. Sarà
rilasciato, in attesa del giudizio, la mattina dopo, dal procuratore
Pessina.
Portato via il ragazzo, Franzoni
interroga il medico che è stato inutilmente chiamato per soccorrere
la vittima e ne ha esaminato il corpo, Alberto Manzi. Manzi gli fa
una rivelazione illuminante: l'aspetto della ferita, alla base del
collo, non fa pensare a un colpo sparato dalla distanza di qualche
metro ma a un colpo esploso a bruciapelo.
Poi, Franzoni va a interrogare i
parenti della Belli, senza cavarci fuori nulla: ma, al ritorno, viene
avvicinato da un altro domestico, che gli rivela che la ragazza era
incinta, in mezzo al personale lo sapevano tutti.
Allora Franzoni si reca a casa del
dottor Manzi, che intanto è andato via, e gli chiede perché non lo
ha scoperto quando ha esaminato il cadavere. Manzi risponde che non
ha fatto nessuna autopsia, dato che nessuno l'ha ordinata. Franzoni
dice che, con i nuovi sviluppi del caso, l'autopsia diventa
necessaria, ma Manzi risponde che lui non farà nulla se non gli
arrivano ordini superiori, e dubita che gliene arriveranno.
Pochi giorni dopo, Franzoni torna a
Milano, dove resterà fino alla morte, nel 1904. Il suo confidente,
l'avvocato Barbuti, gli sopravvive fino al 1909. Tra i due, nel
tempo, non sembra ci siano stati scambi epistolari.
Angiolo Carrara Verdi, accusato di
omicidio colposo, viene condannato in primo e secondo grado alla pena
di 38 giorni di reclusione, 31 lire di multa e il ritiro del porto
d'armi. La sentenza, però, sarà rapidamente condonata dal re
Umberto I in persona, con un apposito, solenne decreto. In seguito
sarà notaio, ufficiale dei bersaglieri, uomo politico. Le scarne
note biografiche riportate da Wikipedia e da poche altre pagine
(senza neppure un'immagine) omettono completamente la vicenda del
delitto.
LA DOTT.SSA MARIA GRAZIA FIDA, SCRIVE:
RispondiEliminaLa giustizia di questo mondo somiglia a quelle ragnatele ordite in lungo, tessute in tondo, che si trovano nelle tinaie. Dio guardi mosche e moscerini che vi bazzicano un può vicino; purgano subito il delitto non appena vi si impigliano. Invece i calabroni bucano, passano senza danno e la suola dello scarpone tocca tutta al ragno.