sabato 16 settembre 2017

Delitto in casa Verdi

Nel 1981, lo scrittore e giornalista Maurizio Chierici, parmense, allora inviato del Corriere della Sera, si inimicò tutti i suoi concittadini, e anche gran parte di quelli della provincia, pubblicando un libro che toglieva il velo steso da oltre un secolo su una torbida vicenda, nella quale era coinvolto anche il compositore Giuseppe Verdi, gloria nazionale e soprattutto cittadina.
Giuseppe Verdi (1813-1901)

Eppure Chierici era stato prudente. Anziché proporre il risultato della sua inchiesta in forma di saggio, aveva preferito quella molto più prudente del romanzo, Quel delitto in casa Verdi, da cui il lettore poteva farsi un'idea della vicenda ma senza necessariamente trarre conclusioni definitive. L'escamotage gli era stato suggerito ad hoc dall'editore Giulio Einaudi, preoccupato di vedersi imporre querele o boicottaggi da qualche fanatico.
La prima edizione del libro

Maurizio Chierici

Ma nulla bastò a salvare Chierici dagli strali dei notabili e soprattutto dei politici locali. Il sindaco di Busseto, paese natale di Verdi, arrivò a scrivere al presidente Pertini chiedendo che a Chierici fosse revocata la cittadinanza italiana. Anche un bel po' di intellettuali di rigorosa passione verdiana (come Massimo Mila, che al Maestro aveva dedicato una imponente biografia degli anni giovanili) insorsero contro l'offesa che si faceva alla memoria di un monumento nazionale.
Chierici aveva lavorato soprattutto sugli archivi dei giornali locali, ben conservati e spesso molto più legati ai personaggi famosi di quanto si amerebbe credere (il principale, La Gazzetta di Parma, era addirittura di proprietà di Verdi stesso, che l'aveva comprato per favorire l'elezione al Senato del suo avvocato). Ovviamente, ne aveva ricavato solo versioni ufficiali, sempre piuttosto addomesticate.
Ma l'istinto del cronista gli aveva fatto intuire che la verità poteva trovarsi altrove. E, facendosi aiutare dalla Questura di Milano, era riuscito a rintracciare il diario di un anziano poliziotto parmense, Gaetano Franzoni che già aveva già tenuto sotto controllo il giovane Verdi per conto del Duca di Parma e Piacenza, e poi era stato arruolato nella neonata polizia del Regno d'Italia, e continuava a spiare Verdi per conto di quest'ultima, stando a Busseto sotto le mentite spoglie di un agronomo. Lui e un altro testimone, l'avvocato Francesco Barbuti, sono i primi ad avere dei sospetti su una vicenda che invece le autorità sembrano voler chiudere alla svelta, a ogni costo.
Ma, i fatti, quali sono?
Alle 14,15 di lunedì 26 settembre 1898, nella Villa Paradiso, la grande dimora di Giuseppe Verdi a Busseto, il nipote del Maestro (figlio della nipote Maria Filomena, adottata come figlia dopo la prematura scomparsa degli eredi legittimi), il diciottenne Angiolo Carrara, studente liceale, esplode un colpo di fucile che uccide una domestica, Giuseppa Belli (il nome, in alcuni documenti, sarà sbagliato in Peppina Bindi), ventitreenne.
Maria Filomena Verdi, madre del ragazzo

La villa che fu teatro del fatto

Quando arrivano i carabinieri per indagare sul fatto, il ragazzo è scomparso e i parenti affermano di non sapere dove sia. Tuttavia, in serata, viene rintracciato e arrestato da una pattuglia di carabinieri a caccia di anarchici e socialisti (sono anni di importanti rivendicazioni sociali, i fatti di Milano e le cannonate di Bava Beccaris risalgono a meno di cinque mesi prima). La famiglia intanto ha già fatto accorrere un avvocato e, già dal primo interrogatorio, si comprende quale sarà la strategia difensiva: il ragazzo afferma che il colpo è partito per sbaglio, mentre puliva il fucile.
Franzoni svela la sua identità di delegato di polizia e si affianca al comandante della stazione dei carabinieri, il vicebrigadiere Angelo Gaiba. Ma l'interrogatorio è condotto dal solo Franzoni, mentre Gaiba si limita a trascriverlo. Angiolo Carrara racconta di essere stato a caccia e di aver dimenticato di scaricare il fucile prima di tornare a casa. Qui, avrebbe lasciato il fucile sporco di fango nell'ingresso, chiedendo alla Belli di pulirlo, e poi sarebbe uscito di nuovo per andare in bicicletta a salutare il nonno, che era fuori e non vedeva da tre giorni. Al ritorno, avrebbe pranzato e poi si sarebbe accorto che il fucile era ancora da pulire, mentre la Belli si dedicava alla pulizia dei pavimenti e non se ne sarebbe occupata ancora per un po', ragione per cui avrebbe deciso di pulirlo da solo. E a quel punto, fatalmente, sarebbe partito il colpo.
Il solo testimone è un altro dipendente di Verdi, Alfonso Belli, fratello maggiore della vittima. Ma non ha visto nulla, era in un'altra stanza: ha sentito il colpo, è accorso, ha visto la sorella distesa per terra e il ragazzo chino su di lei, poi il ragazzo è fuggito.
Nonostante le proteste dell'avvocato Sanguinetti, legale della famiglia, e del padre del ragazzo, il dottor Alberto Carrara, Franzoni dispone che Angiolo sia custodito per la notte nelle celle della stazione dei carabinieri. Sarà rilasciato, in attesa del giudizio, la mattina dopo, dal procuratore Pessina.
Portato via il ragazzo, Franzoni interroga il medico che è stato inutilmente chiamato per soccorrere la vittima e ne ha esaminato il corpo, Alberto Manzi. Manzi gli fa una rivelazione illuminante: l'aspetto della ferita, alla base del collo, non fa pensare a un colpo sparato dalla distanza di qualche metro ma a un colpo esploso a bruciapelo.
Poi, Franzoni va a interrogare i parenti della Belli, senza cavarci fuori nulla: ma, al ritorno, viene avvicinato da un altro domestico, che gli rivela che la ragazza era incinta, in mezzo al personale lo sapevano tutti.
Allora Franzoni si reca a casa del dottor Manzi, che intanto è andato via, e gli chiede perché non lo ha scoperto quando ha esaminato il cadavere. Manzi risponde che non ha fatto nessuna autopsia, dato che nessuno l'ha ordinata. Franzoni dice che, con i nuovi sviluppi del caso, l'autopsia diventa necessaria, ma Manzi risponde che lui non farà nulla se non gli arrivano ordini superiori, e dubita che gliene arriveranno.
Pochi giorni dopo, Franzoni torna a Milano, dove resterà fino alla morte, nel 1904. Il suo confidente, l'avvocato Barbuti, gli sopravvive fino al 1909. Tra i due, nel tempo, non sembra ci siano stati scambi epistolari.

Angiolo Carrara Verdi, accusato di omicidio colposo, viene condannato in primo e secondo grado alla pena di 38 giorni di reclusione, 31 lire di multa e il ritiro del porto d'armi. La sentenza, però, sarà rapidamente condonata dal re Umberto I in persona, con un apposito, solenne decreto. In seguito sarà notaio, ufficiale dei bersaglieri, uomo politico. Le scarne note biografiche riportate da Wikipedia e da poche altre pagine (senza neppure un'immagine) omettono completamente la vicenda del delitto.

1 commento:

  1. LA DOTT.SSA MARIA GRAZIA FIDA, SCRIVE:
    La giustizia di questo mondo somiglia a quelle ragnatele ordite in lungo, tessute in tondo, che si trovano nelle tinaie. Dio guardi mosche e moscerini che vi bazzicano un può vicino; purgano subito il delitto non appena vi si impigliano. Invece i calabroni bucano, passano senza danno e la suola dello scarpone tocca tutta al ragno.

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