domenica 26 novembre 2017

Fedelissima alla Bestia: la storia di Lynette Fromme

La recente scomparsa di Charles Manson ha riportato sulle pagine dei giornali gli spaventosi delitti di cui si resero responsabili gli adepti della sua “famiglia” alla fine degli anni '60.
La Giustizia ha avuto la mano pesantissima sui diretti responsabili di quei crimini. Non solo Manson, ma anche tutti gli esecutori materiali delle stragi (in gran parte giovani donne), da allora, non sono più usciti di galera e una (Susan Atkins) vi è anche morta, a 61 anni, nel 2009.
La “famiglia” di Manson comprendeva però anche altri elementi, che non furono coinvolti direttamente nei crimini e di conseguenza, pur soggetti a indagini, ne uscirono senza conseguenze. La maggior parte di essi, però, dopo la dispersione del gruppo, continuò a vivere ai margini della legge e alcuni finirono comunque per cacciarsi in grossi guai. Per esempio, Lynette Fromme.
Lynette Fromme (in primo piano) in una foto di gruppo della "famiglia" di Manson
Lynette e altre tre ragazze della "famiglia"

La Fromme rappresenta un caso un po' particolare nell'ambito della “famiglia” di Manson. A differenza di quasi tutti gli altri adepti del guru satanista, non proveniva da una realtà sociale degradata e non aveva alle spalle alcuna storia di abbandono o abusi. Era nata il 22 ottobre 1948 in una famiglia alto-borghese della California (il padre era un ingegnere aeronautico) ed aveva concluso regolarmente le scuole superiori pur avendo avuto qualche piccolo problema per l'uso di droghe negli ultimi anni. Da bambina, aveva studiato danza in una scuola prestigiosa e fatto parte di una compagnia chiamata Westchester Lariats, che aveva ottenuto abbastanza successo da andare in tournée in Europa e esibirsi alla Casa Bianca.
Lynette in un annuario scolastico

La serena esistenza borghese di Lynette Fromme era terminata quando, in contrasto con il padre che la voleva per forza all'università, se n'era andata di casa e si era messa a fare la vagabonda, nel 1967. La vita on the road era più dura del previsto e, quando incontrò casualmente Charles Manson, fu colpita dal suo carisma e si unì al suo gruppo. Qui, le diedero il soprannome che le sarebbe sempre rimasto, Squeaky (squittio, stridulo), anche se esistono due versioni su come questo fu coniato. Secondo una, in seguito a un suono che lei emise quando il proprietario della fattoria che ospitava la comunità, George Spahn, la toccò inavvertitamente; secondo un'altra, il soprannome le fu dato da Manson stesso per i suoni che Lynette emetteva durante i rapporti sessuali.
Durante il processo per le stragi del 1969, Lynette restò accampata fuori del tribunale insieme a quasi tutti gli altri membri della “famiglia” che non erano stati arrestati. Quando Manson e gli altri imputati si incisero una X sulla fronte, fece lo stesso e approfittò delle non molte occasioni in cui qualche giornalista provò a intervistarla per proclamare l'innocenza di Manson e predicare la filosofia apocalittica di questo. Riuscì comunque a farsi infliggere due lievi condanne, che le costarono due brevi soggiorni in galera, una per aver cercato di intimidire dei testimoni con delle minacce e l'altra per oltraggio alla Corte.
Lynette e altre ragazze della "famiglia" fuori del tribunale durante il processo a Manson

Tuttavia, Lynette, per la sua fedeltà a Manson, finì per ritrovarsi coinvolta in un altro contesto criminale, potenzialmente pericolosissimo. Manson, che aveva sempre propagandato idee razziste, temeva di essere aggredito in carcere da altri detenuti neri, specie quelli che si erano fatti musulmani per seguire Malcolm X. Per questo, prese contatto con la Aryan Brotherhood (Fratellanza Ariana), la principale e più violenta gang di detenuti americani, responsabile di gran parte degli omicidi che avvengono in carcere, anch'essa connotata da forti inclinazioni razziste. Il patto era che Manson avrebbe fornito ragazze disinibite e disponibili della sua “famiglia” ai membri della Fratellanza in libertà e in cambio sarebbe stato protetto dai membri detenuti. Lynette, insieme ad altre due ragazze, Nancy Pitman e Priscilla Cooper, andarono a offrirsi a due membri della Fratellanza, Micahel Monfort e James Craig. Questi erano spietati assassini e, appena si presentò l'occasione, aggiunsero un altro atroce delitto al loro curriculum.
Nell'estate del 1972, il nuovo gruppo, vagabondando per la California e mantenendosi con i proventi di rapine e altri furti, finì per stabilirsi accanto alla modesta casa isolata dei coniugi James e Lauren Willett, che avevano avuto una bambina da poco. Non si è mai accertato con esattezza cosa accadde, ma nel settembre dello stesso anno i due furono uccisi. Forse Lauren Willett morì solo perché, ubriaca o drogata, si prestò a un tragico gioco di roulette russa, ma quello di James Willett è sicuramente un omicidio premeditato, perché l'uomo fu costretto a scavarsi la fossa da solo prima di essere sparato. Probabilmente, si era reso conto che Monfort e Craig erano due banditi e stava per andare a denunciarli.
La bambina, fortunatamente, fu ritrovata viva e messa in un istituto, quando la vicenda venne scoperta dalla polizia, nel novembre successivo.
Lynette fu arrestata per questo crimine ma, dopo circa due mesi e mezzo, venne rilasciata perché riuscì a dimostrare che, nel momento in cui si erano consumati i due delitti, si trovava a Stockton, per visitare un altro membro della “famiglia”, William Goucher, detenuto presso il locale carcere per rapina. Gli altri 4 membri del gruppo furono tutti processati e condannati.
Quando Manson, dopo la condanna, fu trasferito alla prigione di Folsom, Lynette andò a vivere, insieme all'amica Sandra Good, in una casa fatiscente di Sacramento, per stargli il più vicino possibile. Nel 1973 provò a scrivere un libro sulla sua esperienza all'interno della “famiglia”: il manoscritto, che comprendeva anche disegni e foto, arrivò a superare le 600 pagine. Tuttavia, discutendone con altri membri del gruppo, giunse alla conclusione che un simile documento sarebbe stato troppo compromettente e abbandonò il progetto.

Lynette e Sandra Good

Nel 1975, in coincidenza con la data di un concerto a Los Angeles nell'ambito di un tour dei Led Zeppelin, Lynette cercò di prendere contatto con Jimmy Page per avvisarlo di un ipotetico “pericolo” che correva e arrivò a parlare con un dirigente della loro casa discografica, Danny Goldberg, che le promise di recapitare il messaggio. Ma a Page non accadde nulla di preoccupante, né allora né dopo.
Lynette e Sandra Good sembravano aver sposato la causa dell'ecologia e in particolare della tutela delle foreste di sequoie in California, che peroravano vestendosi di lunghe tuniche con cappuccio, una (Lynette) rossa e l'altra (Sandra) azzurra. Era anche questo un omaggio a Manson, che a volte chiamava l'una “Red” per i capelli rossi e l'altra “Blue” per gli occhi azzurri. Con l'obiettivo ufficiale di sensibilizzare il presidente Gerald Ford sul tema delle sequoie, il 5 settembre 1975, Lynette lo avvicinò al parco Capitol di Sacramento, durante la preparazione di un evento ufficiale. Appena tirò fuori dalla veste la Colt M1911 calibro 45 che teneva nascosta sotto la veste, l'agente Larry Buendorf dei servizi segreti le si avventò addosso e la disarmò. Subito dopo fu ammanettata e arrestata dai poliziotti presenti.

Due immagini dell'arresto di Lynette

Al processo, Lynette rifiutò di fornire la minima collaborazione. Mentre il procuratore Dwayne Keyes la definiva “piena di odio e violenza” durante la sua requisitoria, gli scagliò contro la mela che stava mangiando nella gabbia degli imputati, facendogli volare via gli occhiali. Fu condannata all'ergastolo.
Solo qualche anno dopo, nel 1980, ammise di non aver avuto intenzione di uccidere Ford ma solo di compiere un gesto dimostrativo. La prova di questo era che la pistola era priva di otturatore e che l'otturatore era stato trovato sul pavimento della stanza d'albergo in cui Lynette aveva dormito nella notte tra il 4 e il 5 settembre.

Lynette fotografata durante gli interrogatori

La sua condotta in galera fu peraltro pessima. Nel 1979 dovette essere trasferita da un carcere a un altro per aver aggredito Julienne Busic, una ex attivista che denunciava le violazioni dei diritti umani nella Jugoslavia di Tito ma era stata condannata all'ergastolo per il dirottamento di un aereo. Nel 1987, riuscì a evadere dal campo correzionale in Virginia presso cui era stata spostata, ma fu ripresa dopo due giorni mentre cercava di raggiungere la California nell'assurdo tentativo di incontrare ancora Manson. Da allora, fu detenuta in Texas.
Il 14 agosto 2009, dopo una serie di rinvii e di udienze con risultati negativi, è stata rilasciata in libertà vigilata e si è trasferita a Marcy, vicino New York. Non ha mai rinnegato nulla del suo terrificante passato, ma ormai è solo una donna anziana e sola, che non può più nuocere a nessuno.
Lynette Fromme oggi



domenica 19 novembre 2017

L'Italia che fu: il delitto Sonzogno

La sera del 6 febbraio 1875, sabato grasso, nel suo ufficio in via de' Cesarini a Trastevere, Raffaele Sonzogno, giornalista, direttore del quotidiano La Capitale, stava componendo i titoli della prima pagina che sarebbe apparsa il giorno successivo.
Sonzogno, originario di Milano ma attivo ormai da tempo a Roma, compiva 46 anni proprio quel giorno, che aveva trascorso interamente al lavoro.
Un ritratto di Sonzogno

All'improvviso, mentre dalla strada arrivavano echi di feste di Carnevale, un uomo vestito in modo modesto si presentò nella stanza e, prima che Sonzogno potesse dire qualcosa, gli si avventò contro e gli vibrò 17 coltellate, uccidendolo quasi all'istante.
Due dipendenti del giornale, il tipografo Riolini e il proto Mantegazza, accorsi sul posto richiamati dai rumori, immobilizzarono l'assassino. Arrivò anche una guardia municipale, salita dalla strada, e, mentre saliva le scale, notò un secondo uomo che fuggiva via dall'androne del palazzo.
Delle indagini, si occupò il commissariato di Ripa, nella persona del delegato Leopoldo Galeazzi, cremonese, che fu anche il primo a interrogare l'assassino e a identificarlo come Pio Frezza, un artigiano di 26 anni, noto anche come Spaghetto per la sua magrezza. Dalle risposte di Spaghetto, Galeazzi arguì che sotto il delitto potessero esserci questioni personali, con la moglie separata di Frezza che se la intendeva con Sonzogno, ma la spiegazione non lo convinse molto. Così come non lo convinse, successivamente, la fretta con cui il questore Giovanni Bolis, un altro lombardo, pretendeva di chiudere il caso. Bolis era stato spessissimo oggetto di attacchi da parte di Sonzogno.
Sonzogno aveva troppi nemici, pure importanti, perché il suo delitto potesse essere spiegato comodamente come una semplice faccenda di corna e gelosia.
S.Maria in Trastevere al tempo del delitto

Il numero di La Capitale del 7 febbraio uscì a cura del vice di Sonzogno, il pescarese Filandro Colacito, di 25 anni. Colacito, nei giorni successivi, avrebbe rivestito un ruolo molto importante nella ricerca dei possibili mandanti. In pratica, solo lui e Galeazzi non si sarebbero adagiati sulla prima versione ufficiale e, spesso collaborando tra loro, sarebbero riusciuti a scoperchiare il vero meccanismo che stava dietro il delitto.
Frequentando l'osteria presso la quale Frezza era abituato a consumare i pasti, Colacito riuscì a rintracciare alcuni suoi conoscenti dei quali poteva far parte il secondo uomo, quello fuggito dall'androne del palazzo. Oltre a questo, riuscì a rintracciare anche la moglie separata di Frezza, Anna, un'avvenente ragazza che lavorava in una fabbrica, di cui a un certo punto divenne addirittura amante, che lo mise in contatto con altri personaggi ancora.
La Roma del 1875 era una città in forte espansione, dopo essere diventata la Capitale d'Italia. Il nuovo ruolo e i tanti impieghi che l'istituzione dei diversi ministeri aveva comportato, erano stati un richiamo irresistibile per tutta la disoccupazione intellettuale d'Italia: che, malgrado l'alto tasso di analfabetismo nazionale, era molto elevata, esattamente come oggi. La città, quindi, aveva avuto bisogno di allargarsi, e questo aveva dato origine a vasti fenomeni di speculazione edilizia e lottizzazione. In più, in mezzo alla popolazione autoctona, spadroneggiavano bande di criminali comuni, spesso organizzati in società segrete, già esistenti al tempo dello Stato Pontificio e spesso attive a favore dell'Unità d'Italia, che ora si mettevano a disposizione dei politici senza scrupoli o dei palazzinari come braccio armato per intimidire o eliminare concorrenti o critici. E Sonzogno era in prima fila tra questi ultimi.
Ma, come emerse presto dalle indagini, la realtà della sua vita era ancora più complicata. Sua moglie, Emilia Comolli, una comasca di 29 anni proveniente da una ricca famiglia borghese, se la intendeva con un giovane ambizioso romano, di origini modeste, Giuseppe Luciani, di 31 anni, ex garibaldino ed ex collaboratore di Sonzogno stesso, che intendeva fare carriera in politica, cominciando dalle elezioni municipali. Trastevere poteva essere un ottimo trampolino di lancio ma anche Luciani dava fastidio a qualche concorrente e la sua scalata al successo si stava rivelando più difficile dei previsto. La prima volta che era stato eletto, poco prima, l'elezione era stata invalidata in seguito a un'inchiesta per brogli partita proprio da una denuncia di Sonzogno. L'evidenza di questo collegamento, scoperto da Galeazzi, finì per smuovere anche Bolis.
Un altro elemento complicava ancora di più la situazione: la famiglia di Sonzogno, nella persona del fratello Edoardo che ne aveva preso il posto, insisteva perché si indagasse su un certo Alessandro Erdan, un giornalista francese del quotidiano Le Temps che probabilmente era anche una spia doppiogiochista, al servizio sia dell'Italia sia dell'Austria. La Capitale ne aveva parlato in prima pagina pochi giorni dopo il delitto e il governo temeva che eventuali rivelazioni al riguardo potessero provocare uno scandalo. Tra l'altro, Galeazzi era in possesso di un biglietto manoscritto di Sonzogno, trovato sulla scena del crimine, in cui si chiamava in causa anche il Neue Freie Press, un quotidiano viennese su cui trovavano spesso spazio delle notizie che potevano essere arrivate in Austria, secondo Sonzogno, solo attraverso Erdan.
Non c'erano di mezzo solo questioni internazionali e di spionaggio. Il grosso della partita si giocava a Roma, dove i diretti interessati non si risparmiavano colpi per intimidire o zittire ogni possibile testimone. Una banda di delinquenti, una sera, sequestrò Anna Frezzi e la liberò solo dopo una notte di violenze e torture, avvisandola che la volta successiva non sarebbe più tornata a casa. Un testimone più volte interrogato da Galeazzi, Giuseppe Zambonini, presidente dalla Società dei non-elettori (all'epoca per avere il diritto di votare occorreva raggiungere un certo livello di reddito), fu aggredito in strada da un uomo che gli procurò gravi lesioni pestandolo con una chiave inglese.
Galeazzi e Bolis si misero in testa che anche alcuni “tutori dell'ordine”, le guardie municipali fossero pesantemente coinvolti in queste faccende: molti erano ex delinquenti arruolati dal Sindaco solo come premio per aver partecipato in qualche modo alla causa dell'annessione di Roma all'Italia. I due funzionari fecero pedinare uno di essi, Michele Armati, già chiamato in causa quale conoscente di Frezza, da un ufficiale, Pilade Chiarini, che scoprì come l'uomo fosse intimo anche di Luciani. Un altro tirapiedi di Luciani, Luigi Morelli, pure guardia municipale, fermato e interrogato, fece ulteriori ammissioni sul possibile coinvolgimento di quest'ultimo.
Il cerchio si stringeva intorno a Luciani, che cercò una via d'uscita nell'interessamento di Garibaldi tramite suo figlio Ricciotti, fondatore di una società politica determinata a ottenere la concessione del suffragio universale, i Franchi Cafoni, legata sia a Frezza, che ne era un membro, sia a Luciani stesso, che da essa era stata sempre sostenuto. Ma Ricciotti Garibaldi, che aveva già le mani parecchio in pasta nelle lottizzazioni della periferia romana che Sonzogno denunciava da tempo, preferì sacrificare il suo ex pupillo piuttosto che rischiare i far emergere i lati nascosti dei suoi affari.
Ricciotti Garibaldi (1847-1924)

Il 16 febbraio, mentre in casa Sonzogno Emilia Comolli partoriva, morto, il figlio nato dalla loro relazione, Luciani fu arrestato in casa sua, in via de' Giubbonari, da Galeazzi.
Da quel momento in poi, finì abbandonato da tutti i suoi ex sostenitori e protettori. Era in corso l'approvazione di un Piano Regolatore che avrebbe fatto la fortuna di parecchi di loro, prosciugando le casse pubbliche, e nessuno avrebbe compromesso un tale affare solo per aiutare un pezzente risalito troppo ambizioso. In seguito, un altro importante giornalista del tempo, Felice Cavallotti, avrebbe fatto emergere che, già da tempo, Sonzogno si era duramente battuto, dalla tribuna del suo giornale, perché la periferia fosse costituita da abitazioni più moderne e funzionali, ad un costo nettamente inferiore rispetto a quanto pretendevano di imporre i palazzinari, ma non aveva trovato alcun sostegno politico.
Il processo per l'uccisione di Sonzogno, svoltosi nell'ottobre dello stesso anno, fu tenuto in modo da non disturbare nessuno, visto che esecutore e mandante erano già lì, belli e pronti da offrire in pasto all'opinione pubblica. La Corte fu particolarmente spietata, infliggendo la condanna all'ergastolo a tutti gli imputati: Luciani, indicato quale mandante, Frezza, indicato quale esecutore, Michele Armati, Luigi Morelli e un certo Cornelio Farina, tutti coinvolti a vario titolo.

Gli atti del processo in una pubblicazione del tempo

Luciani, detenuto a Santo Stefano, morì in carcere nel 1899, dopo aver tentato in tutti i modi di ottenere la revisione del processo, ma non la ottenne nemmeno quando alla Giustizia fu nominato un suo ex amico, Pasquale Stanislao Mancini. Fu anzi accusato prima di aver organizzato un tentativo di evasione e poi il rapimento del principe Vittorio Emanuele. Tutti gli altri condannati lo avevano già preceduto, a partire da Frezza che era già tubercolotico al tempo del delitto.
Colacito fu giornalista e scrittore di scarso successo, Galeazzi e Bolis seguirono tranquille carriere nell'amministrazione pubblica, di tutti gli altri personaggi non famosi per altre ragioni si sono perse le tracce, nonostante la vicenda abbia ispirato un bellissimo sceneggiato televisivo, diretto da Alberto Negrin nel 1975 (Processo per l'uccisione di Raffaele Sonzogno giornalista romano) e interpretato da un cast stellare (Pino Colizzi, Elio Zamuto, Glauco Onorato, Ferruccio Amendola, solo per citare i più noti) e un eccellente romanzo storico di Roberto Mazzucco (I sicari di Trastevere), pubblicato nel 2013 ma scritto nel 1987.
Una scena dello sceneggiato del 1975

La copertina del libro di Roberto Mazzucco







sabato 4 novembre 2017

Morte nell'acqua: il caso Natalie Wood

Si chiamava, in realtà, Natalja Nikolaevna Zacharenko, ma con un nome simile non avrebbe mai fatto carriera nello show business hollywoodiano, e a inizio carriera glielo cambiarono in Natalie Wood.
Inizio carriera che fu peraltro precocissimo. Nata da una coppia di immigrati russi il 20 luglio 1938, esordì in un film intitolato Happy Land che uscì nel 1943, a meno di 5 anni. Prima di compierne 10, dopo diversi altri ruoli da caratterista, divenne veramente famosa, grazie al ruolo della bambina che non crede all'esistenza di Babbo Natale, in Il miracolo della 34a Strada, uscito nel 1947.
E' abbastanza raro, oggi come allora, che le attrici bambine (come anche gli attori bambini) di successo proseguano una felice carriera anche da adulte. Spesso, agenti rapaci o genitori irresponsabili, finiscono per sfruttare le piccole star spremendole come limoni e non lasciandole libere di crescere come si deve, per cui la loro vita successiva sarà un inferno di nevrosi, vizi autodistruttivi ed errori. Per Natalie Wood, invece, le cose non andarono così: la sua carriera da adulta è anche più prestigiosa di quella da bambina, e annovera parecchi successi, con non pochi riconoscimenti di livello (3 nomination all'Oscar e 3 Golden Globe vinti).
Natalie Wood nel 1956

Natalie Wood negli anni '70

Fu senz'altro aiutata, in questo, dalla scelta di essere attrice sul serio, studiando per diventarlo senza adagiarsi sulla notorietà del nome, oltre che dalla particolare bellezza, piuttosto al di fuori dei normali canoni hollywoodiani: bassa (152 cm) e formosa (ma non fu mai in sovrappeso), lineamenti gradevolmente marcati e vagamente esotici (infatti spesso interpretò ruoli di “straniera”, come mediterranea, indiana o russa), grandi occhi scuri.
I suoi film importanti sono talmente tanti che si fa fatica a indicarne uno in particolare: basti pensare a Gioventù bruciata, a Sentieri selvaggi, a West Side Story, a Splendore nell'erba, a Lo strano mondo di Daisy Clover, a Questa ragazza è di tutti...
Con James Dean sul set di Gioventù bruciata

Con Robert Wagner in Splendore nell'erba

In Lo strano mondo di Daisy Clover

Con Robert Redford in Questa ragazza è di tutti

In West Side Story

Nella maturità, meno richiesta al cinema, lavorò moltissimo in televisione, sempre con grande successo.
Ebbe una vita privata vivace ma sostanzialmente abbastanza equilibrata, per gli standard di Hollywood: giovanissima, nel 1957, sposò Robert Wagner, nato nel 1930, un giovane attore di successo con cui formò per alcuni anni una coppia molto affiatata, fino al divorzio (1962) per ragioni mai precisate, forse legate alla vita troppo dispendiosa che Wagner imponeva alla moglie e ai conseguenti problemi economici nonostante gli ottimi guadagni. Successivamente, dal 1969 al 1972, fu sposata con il produttore Richard Gregson, da cui ebbe la figlia Natasha nel 1970. Dopo questo secondo divorzio, tornò insieme a Wagner e si risposò con lui nello stesso 1972. Nel 1974, la coppia ebbe una figlia, Courtney.

Durante il primo matrimonio con Robert Wagner

Durante il secondo matrimonio con Wagner

Tutto sembrava andare a gonfie vele, quando Natalie morì improvvisamente, in un assurdo incidente, la notte del 29 novembre 1981.
I fatti sono stati ricostruiti in base alle deposizioni dei tre testimoni, che poi sono anche gli unici indiziati di avere avuto un ruolo nei fatti stessi, anche se questo ruolo non è stato mai definitivamente chiarito. Il primo è Robert Wagner, il secondo è un altro famosissimo attore, Christopher Walken, nato nel 1943, il terzo è il marinaio che conduceva lo yacht della coppia, lo Splendour, Dennis Davern.

Due immagini dello Splendour

Christoper Walken all'epoca dei fatti

La Wood, Wagner e Walken passarono la serata del 28 novembre, un sabato, proprio sullo yacht, al largo dell'isola di Santa Catalina, la più vicina a Los Angeles delle Channels Islands. Natalie e Walken stavano finendo di girare un film (Brainstorm – generazione elettronica, che sarebbe uscito nel 1983) e lei lo aveva invitato a trascorre il weekend insieme. All'epoca, circolarono voci sul fatto che Walken potesse essere l'amante di Natalie o che addirittura tra i tre fosse in corso un triangolo amoroso, ma nulla è mai stato provato.
Durante la serata, i tre bevvero parecchio, come spesso accade in queste occasioni, e a un certo punto, sotto l'effetto dell'alcol, Wagner e Walken si appisolarono. In precedenza, Natalie e Wagner avevano avuto un litigio piuttosto acceso, ma senza particolari conseguenze, come testimoniarono Walken e Davern. Quando si svegliarono, in piena notte, Natalie non era più con loro.
Fu ritrovata annegata a circa un km e mezzo di distanza dallo Splendour, la mattina dopo. A poca distanza da lei, c'era un canotto di salvataggio appartente alla stessa imbarcazione.
Inizialmente si parlò anche di suicidio, ma il verdetto dell'inchiesta ufficiale condotta dalla capitaneria di porto fu di annegamento accidentale. Secondo i periti, Natalie Wood fu svegliata dal rumore del canotto che, fissato male alla imbarcazione, vi sbatteva contro; nel tentativo di legarlo meglio cadde in acqua e non riuscì più a risalire a bordo né dello yacht né del canotto, finché l'effetto combinato dell'acqua fredda e dei tanti alcolici bevuti le fece perdere conoscenza, dopodiché annegò.
Tale versione è stata messa ripetutamente in dubbio sia dalla sorella di Natalie (Lana Wood, anch'essa attrice, nota come Bond girl in Una cascata di diamanti), per la quale Natalie sarebbe stata spinta in acqua probabilmente da Wagner. A sostegno di questa ipotesi c'è il fatto che l'autopsia avrebbe evidenziato una escoriazione sul volto e dei lividi sulle braccia, possibili segni di colluttazione. Ma tali segni sono interpretabili anche alla luce dei tentativi di risalire almeno sul canotto che la donna avrebbe compiuto. Anche la testimonianza raccolta da una donna imbarcata su uno yacht vicino, per la quale, nella notte, una voce femminile chiamò ripetutamente aiuto nella notte, finché una voce maschile le rispose di non preoccuparsi, non è probante, dato che non si è riusciti mai a stabilire se la voce fosse o meno quella di Natalie.
Lana Wood (nata nel 1946) al tempo di Una cascata di diamanti

Lana e Natalie Wood

Anche Dennis Davern accusa Wagner, ma in un altro modo. Secondo lui, Wagner allertò troppo tardi la capitaneria di porto, lasciando che Natalie annegasse senza soccorsi. Secondo Davern, questo potrebbe dimostrare che Wagner era interessato a far morire Natalie per chiuderle la bocca, dato che in acqua ce l'aveva spinta lui. Tuttavia, nulla dimostra che Wagner si sia svegliato prima del momento in cui cominciò a cercare la moglie e allertò la capitaneria di porto.
Dennis Davern nel 2010

Dennis Davern e Natalie Wood sullo Splendour

Cotro queste versioni c'è un giudizio tecnico molto qualificato, quello di Thomas Noguchi, il principale patologo forense della Contea di Los Angeles, che ha trattato il caso nel suo libro Il coroner indaga. Secondo Noguchi, che esaminò il cadavere, i suoi effetti personali e la scena dei fatti, la ricostruzione dell'inchiesta è corretta su certi dettagli ma incompleta su altri.
Thomas Noguchi (nato nel 1927)

Il libro di Noguchi in cui si parla di Natalie Wood


I due volumi di Noguchi tradotti in Italiano negli anni '80

Noguchi sostiene che Natalie, con la mente annebbiata dall'alcol e furiosa con Wagner e Walken per qualcosa che era stato detto durante la discussione, durante la notte decise di lasciarli e di tornare a terra con il canotto. Lo yacht, infatti, era ormeggiato in una baia, abbastanza vicino alla riva da poter raggiungere questa in pochi minuti. Per fare questo, mise in mare il canotto di salvataggio e poi cercò di saltarci dentro, ma lo mancò e finì in acqua. Non riuscendo a risalire sullo yacht, poi, provò ad aggrapparsi al canotto, che le correnti spingevano lontano dall'imbarcazione. A un certo punto, si rese conto che non ce l'avrebbe mai fatta, ma intanto le correnti avevano spinto lei e il canotto ancora più vicini alla riva, per cui avrebbe potuto tentare di raggiungere questa a nuoto. E probabilmente ce l'avrebbe anche fatta, se non fosse stato per alcuni elementi sfavorevoli: l'acqua fredda della notte di fine autunno, l'alcol ingerito che facilitava la dispersione del calore e quindi il sopraggiungere dell'ipotermia, il peso degli abiti che indossava, che non si era mai tolta (un pigiama, una giacca a vento e un paio di calzini) e che ora dovevano essere completamente zuppi d'acqua, al punto da ostacolarle i movimenti.
Per questa ragione, mentre tentava di raggiungere la riva a nuoto, Natalie perse conoscenza per sfinimento e annegò, mentre la corrente le spingeva ancora il canotto vicino.
Non sappiamo se le cose siano andate davvero così e, certo, una simile dinamica sembra rendere ancora più assurda la tragedia della scomparsa accidentale di una giovane donna. Per il momento, però, questa rimane la ricostruzione più attendibile di quanto accadde quella notte.
Robert Wagner oggi

Christopher Walken oggi