domenica 23 aprile 2017

La singolare mania del reverendo William Buckland, insigne scienziato inglese

William Buckland, nato ad Axminster nel Devon il 12 marzo 1784, è stato uno dei più importanti geologi Del XIX secolo e di tutti i tempi. Corrispondente di Georges Cuvier (1769-1832), il massimo anatomista e paleontologo del tempo, fu simpatizzante della sua teoria catastrofistica, che spiegava l'estinzione di massa di intere forme viventi con gli effetti di terremoti, maremoti e altri disastri, senza mettere in dubbio la cronologia di James Ussher (1581-1656) che assegnava alla Terra poco meno di 6.000 anni (la creazione sarebbe avvenuta nel 4004 a.C.).
Willaim Buckland

Georges Cuvier

James Ussher

Anche se, agli occhi dell'uomo moderno, queste idee possono apparire intrise di arretratezza e superstizione, non si può negare che, a modo loro e con le poche conoscenze che avevano a disposizione, sia Ussher sia Cuvier e Buckland cercarono di spiegare la realtà del mondo nel modo più scientificamente possibile, spesso conservando un rigore che invece mancava a scienziati (Buffon, Lamarck, Geoffroy de Saint-Hilaire) che si avvicinarono di più alla verità, intuendo che la Terra era molto più vecchia e che gli organismi andavano soggetti agli effetti di forze evolutive, ma non fornirono mai né prove né teorie convincenti su come questo avvenisse. Ci sarebbe voluto Darwin, nel 1859, perché le teorie evolutive cominciassero ad affermarsi nella comunità scientifica.
Va anche aggiunto che a quel tempo le istituzioni accademiche erano spesso saldamente governate o legate a quelle religiose, specie nel Regno Unito, e che moltissimi scienziati avevano una solida formazione religiosa (lo stesso Darwin era laureato in Teologia), per cui era improbabile che potessero farsi prendere facilmente dal furore iconoclasta.
Tuttavia, erano quasi sempre abbastanza onesti da non nascondere i risultati delle loro richerche, anche quando andavano in direzione opposta a quella delle loro convinzioni. Nei suoi lavori, Darwin attinse a piene mani a contributi di autori come Charles Lyell, Richard Owen, Louis Agassiz e Federico Delpino, che rimasero sempre fedeli al fissismo e alle loro idee religiose.
Nel dibattito sull'età della Terra e l'origine delle specie, Buckland diede in suo contributo, enunciando, nel libro Vindiciae Geologicae, una teoria catastrofista per cui i fossili sarebbero stati anteriori al Diluvio Universale ma precedenti all'avvento dell'uomo. Se la sua idea oggi può apparire bizzarra, basta confrontarla con altre dei suoi contemporanei, tra i quali il più fantasioso fu sicuramente Philip Henry Gosse (1810-88), capace di inventarsi, nel suo trattato Omphalos, che la Terra fosse stata creata dotata direttamente delle vestigia di un passato, per dare all'universo un'estensione infinita non solo in senso spaziale, ma anche in senso temporale.
La copertina dell'edizione originale di Vindiciae geologicae di Buckland

Philip Henry Gosse 

La copertina originale di Omphalos di Gosse

Buckland è noto come il primo scienziato a descrivere un dinosauro, il Megalosaurus bucklandii, i cui reperti risalenti al Giurassico erano stati scoperti proprio in Inghilterra. Il nome, attribuito inizialmente da Cuvier (cui Buckland si era rivolto per una consulenza) fu poi confermato nel 1827 da un altro insigne paleontologo, Gideon Mantell (1790-1852), a sua volta noto per aver scoperto il primo fossile di dinosauro (un Iguanodon).
Buckland fu anche il primo a intuire che dall'analisi dei coproliti (fossili ottenuti dalla mineralizzazione delle feci) si sarebbe appreso molto sulla dieta e sulla vita degli animali estinti. 
Una caricatura di Buckland accanto a una ricostruzione del Megalosaurus

Un0altra caricatura di Buckland al lavoro

Dei coproliti in una illustrazione di un saggio di Buckland
Gideon Mantell


Buckland era un uomo religioso non solo di formazione, ma anche di professione. Oltre che studioso e insegnante (a Oxford, dove si distinse soprattutto per la sua didattica poco ortodossa che piaceva molto agli studenti e cui lasciò in eredità una importante collezione di reperti paleontologici), era un ministro anglicano, prima canonico al Christ Church College di Oxford e poi decano del Westminster College a Londra. Nonostante le sue posizioni nettamente conservatrici in campo scientifico, come idee sociali e civili si dimostrava molto più illuminato della maggior parte dei suoi contemporanei: ad esempio, perorò con forza l'idea che le carestie (un problema comune ai suoi tempi) si dovessero combattere razionalizzando l'agricoltura, investendo risorse pubbliche nella realizzazione di bonifiche e reti di irrigazione, smembrando i grandi latifondi in piccoli lotti di terra da assegnare gratuitamente ai disoccupati per incentivarli al lavoro agricolo. Quasi un comunista, come si può vedere (la sua posizione era peraltro condivisa dalla quasi totalità della Chiesa Anglicana, in opposizione allo strapotere degli aristicratici).
Il Christ Church College di Oxford

Il Westminster College di Londra

A un certo punto della sua vita, però, Buckland intraprese una ricerca scientifica che portò avanti con il massimo impegno e che fa pensare agli studiosi moderni (come Hugh Aldersey-Williams, che gli ha dedicato un capitolo nel suo bel libro Anatomies) che gli fosse saltato di volta il cervello. In pratica, Buckland decise di provare a mangiare qualsiasi cosa di origine animale che apparisse come un possibile cibo. Inizialmente, la sua motivazione fu quella di testare nuovi alimenti, sempre per combattere la fame nel mondo: ma poi, evidentemente, la cosa finì per prendergli la mano.
Un elemento singolare della sua vicenda è che, pur essendo uno scienziato rigoroso, non lasciò alcuna testimonianza scritta di questa sua “ricerca”, per cui tutto ciò che ne sappiamo deriva dalle testimonianze dei suoi amici e conoscenti.
Hugh Aldersey-Williams (1959)

L'edizione originale di Anatomies

L'edizione italiana, Anatomie

Nel corso di questa ricerca, Buckland provò un numero incredibile di alimenti, alcuni dei quali sono oggi usati normalmente in cucina, come la carne di struzzo (che offrì al paleontologo Richard Owen (1804-92), il quale la scambiò per normale tacchino) ma soprattutto prodotti che ripugnerebbero più o meno a chiunque. Ad esempio, il poeta John Ruskin (1819-1900) riferisce ironicamente di aver dovuto rifiutare con molto rammarico una cena in cui sarebbero stati serviti dei toast al topo.
Richard Owen 

John Ruskin

Durante una visita in una cattedrale fuori del Regno Unito (purtroppo non è stato tramandato dove), gli fu mostrata una macchia scura sul pavimento, che si diceva fosse stata lasciata dal sangue di un martire. Buckland, senza esitare, si inginocchiò e leccò la macchia finché non fu certo di averne identificato la natura: per lui, era solo “urina di pipistrello”.
Lo scrittore Augustus Hare (1834-1903) riferisce di una cena nella dimora di Lady Lyndhurst a Nuneham, vicino Oxford, prima della quale la padrona di casa mostrò agli invitati un cofanetto d'argento contenente quello che si diceva fosse il cuore di un re francese (Luigi XIV o Luigi XVI). Quando arrivò il suo turno di ammirare la reliquia, Buckland la afferrò e, prima di poter essere fermato, la mangiò, esprimendo successivamente dei dubbi sul fatto che potesse essere un cuore umano.
Lady Lyndhurst, con ammirevole aplomb, anziché farlo sbattere fuori dai domestici, si limitò a chiedergli quale fosse la cosa più disgustosa che avesse mai mangiato. Buckland rispose che era sicuramente la carne di talpa, dal gusto davvero orribile.
Più tardi, però, Buckland scrisse a Lady Lyndhurst per informarla di aver mangiato qualcosa di ancora più disgustoso delle talpe, ossia dei mosconi azzurri.
Ritratto della prima Lady Lyndhurst, Sarah. E' possibile però che, essendo morta nel 1834, non sia lei la protagonista dell'episodio relativo a Buckland, bensì la seconda Lady Lyndhurst, Georgiana, di cui non si trovano ritratti sul web 

Nuneham House

Augustus Hare

Suona quasi comico e surreale il fatto che, da decano di Westminster, Buckland fu anche sovrintendente alla mensa degli studenti convittori. Non si sa cosa si ritrovarono a mangiare i poveri giovani ma, dalle testimonianze, risulta che il livello del vitto, prima molto povero e monotono, migliorò notevolmente.


La sua dieta temeraria non gli provocò il minimo danno alla salute. Buckland si mantenne in ottime condizioni fisiche fino a quando le conseguenze di un incidente gli provocarono una infezione alla spina dorsale, che si estese fino al cervello e lo portò alla morte, a 72 anni, il 14 agosto 1856 a Islip, nell'Oxfordshire, dove si era ritirato.

sabato 15 aprile 2017

Tra Cold Case e CSI: Cangrande I della Scala

Cangrande (originariamente Can Francesco) della Scala è una delle più importanti figure di aristocratici e guerrieri nella frammentata e turbolenta Italia del XIV secolo. Nato nel marzo del 1291 da una famiglia di nobili veronesi, a soli 20 anni, divenne il leader dei ghibellini della sua città. Estese rapidamente la sua influenza fino alle città di Padova, Vicenza e Treviso, mentre la sua fedeltà all'imperatore Enrico VII gli valse il titolo di Vicario Imperiale di Mantova. Fu anche un importante mecenate di artisti, primo tra tutti Dante Alighieri.
Ritratto di Cangrande I della Scala

Ritratto (immaginario) di Dante Alighieri

Cangrande morì improvvisamente, nel pieno dell'ascesa e in età ancora molto giovane, il 22 luglio 1329, a Treviso, città che aveva appena occupato con il suo esercito. Il decesso fu inizialmente attribuito a una tossinfezione intestinale o a un attacco di malaria (la malattia infettiva che ha ucciso più persone al mondo nella Storia. Il Veneto, come gran parte delle pianure italiane, ne era infestato, e lo stesso Dante Alighieri ne era morto 8 anni prima). Non mancarono, tuttavia, voci per cui Cangrande sarebbe stato avvelenato. All'epoca, era assolutamente impensabile che si potesse compiere un'autopsia e queste voci restarono senza seguito. Fu poi seppellito nella cattedrale di Santa Maria Antica a Verona, davanti alla quale c'è la sua statua equestre.
La statua equestre di Cangrande I davanti Santa Maria Antica
Il sarcofago di Cangrande I

Nel febbraio 2004, un'equipe di ricercatori del Dipartimento di Paleopatologia dell'Università di Pisa, guidata dal prof. Gino Fornaciari, ottenne il permesso di riesumare i resti del condottiero per effettuare degli esami autoptici. Aprendo la tomba, vi si rinvenne il corpo mummificato (naturalmente, senza imbalsamazione) in condizioni decisamente buone, che permisero di svolgere tutti gli esami necessari presso l'Ospedale Maggiore di Verona.
Come apparve la mummia di Cangrande I all'apertura del sarcofago

I controlli furono tutti svolti in modo da intaccare il meno possibile i resti. Cangrande apparve agli esami obiettivi e radiologici come un uomo di una certa prestanza fisica (non meno di 175 cm, parecchio per quel periodo), ben nutrito e di grande sviluppo muscolare, ma anche soggetto a iniziali problemi artrosici ai gomiti e alle ginocchia, evidentemente in seguito agli sforzi dovuti all'uso delle armi e al tanto tempo trascorso a cavallo. I polmoni mostravano poi un inizio di enfisema polmonare, dovuto con ogni probabilità al fumo inalato sostando vicino a bracieri e focolari per riscaldarsi, dato che a quel tempo i camini non erano ancora stati inventati.

Tac di Cangrande I
Il tessuto polmonare di Cangrande I

I dati più importanti, però, si ottennero dagli esami obiettivi e istologici degli organi addominali, in particolare intestino e fegato, che erano discretamente ben conservati.
La malattia mortale di Cangrande iniziò dopo che il condottiero si dissetò con le acque molto fredde della sorgente dei Santi Quaranta, alle porte di Treviso, provocandosi una congestione. Uno dei suoi medici (di cui non è stato tramandato il nome, ma si sa che il successore di Cangrande, Mastino II, lo fece successivamente impiccare, anche se le ragioni ufficiali di questa condanna non sono note) lo prese in cura, ma Cangrande non migliorò. La sintomatologia, che si presentava soprattutto con vomito e diarrea, peggiorò costantemente fino al decesso, nel giro di 4 giorni.
Il fegato di Cangrande, all'esame istologico, non apparve cirrotico come ci si aspettava, ma fibrotico, fatto che ne aveva facilitato la conservazione. I campioni prelevati, sottoposti ad analisi tossicologiche da parte del prof. Franco Tagliaro dell'Università di Verona, evidenziarono la presenza di molte sostanze di uso comune a quel tempo, anche nella preparazione degli alimenti (camomilla, gelso nero, passiflora, ecc) ma soprattutto di una quantità abnorme di digossina e digitossina, due molecole presenti nella Digitalis purpurea, utilissime nella cura delle disfunzioni cardiache (ma all'epoca di Cangrande questo non era noto) e molto tossiche ad alti dosaggi o per bioaccumulo nel tempo.
Il fegato di Cangrande I e il suo aspetto al microscopio




Le analisi tossicologiche che attestano la presenza e la quantità di digossina e digitossina

Anche negli altri reperti, in particolare nei residui di feci ancora presenti nell'intestino, furono rinvenute grandi e inspiegabili quantità delle due molecole.
Il quadro sintomatologico della malattia di Cangrande è perfettamente compatibile con quello dell'avvelenamento da Digitalis purpurea.
La Digitalis pupurea

Cangrande fu dunque avvelenato da uno dei suoi medici.
Ma chi fu il mandante del delitto?
Non è facile dirlo. Il Signore di Verona aveva ovviamente moltissimi nemici, e la sua ascesa doveva sembrare preoccupante a molti, anche perché pareva inarrestabile. Poco prima che morisse, un poeta guelfo (Niccolò de' Rossi) che certo non era suo simpatizzante, aveva profetizzato che sarebbe diventato Re d'Italia entro un anno.
Non era però facile raggiungere la sua corte dall'esterno, quindi è più facile pensare che il delitto sia maturato proprio all'interno della sua stessa cerchia.
Il principale indiziato è dunque il successore, il nipote Mastino II (1308-51), che governò insieme al fratello maggiore Alberto, anche se il ruolo di questo appare puramente formale. Mastino Della Scala non aveva le stesse qualità diplomatiche e militari dello zio, tant'è che il suo governo si ridusse a una serie di campagne militari velleitarie e di pesanti sconfitte che ridimensionarono il ruolo di Verona nello scacchiere dei Comuni italiani. In compenso, era un uomo ambiziosissimo e privo di scrupoli, anche verso i suoi stessi parenti: nel 1338, sospettando che un altro zio, Bartolomeo della Scala, stesse tramando contro di lui, lo uccise personalmente trafiggendolo con la spada. Bartolomeo della Scala era il vescovo di Verona e fu ucciso proprio davanti al Palazzo vescovile. Dopo questo delitto, Verona restò senza vescovo per 5 anni.
Il palazzo vescovile di Verona, oggi
Statua equestre di Mastino II della Scala a Verona. Non ne esistono ritratti



Senza i risultati dell'autopsia, Mastino II non poteva sapere che Cangrande era stato avvelenato e, di conseguenza, condannare a morte il medico assassino. Ma, evidentemente, lo sapeva lo stesso, anche senza bisogno degli esami. La stessa esecuzione del medico può apparire come il tentativo di mettere a tacere definitivamente un testimone molto scomodo.

sabato 8 aprile 2017

David J. Cook a caccia degli assassini italiani

Una delle più leggendarie figure del vecchio West è lo sceriffo David Cook, noto anche come generale David J. Cook, nato a La Porte, Indiana, il 12 agosto 1840 e morto a Denver il 2 aprile 1907. Figlio di agricoltori, ebbe una modesta ma solida istruzione e in gioventù girò gli Usa in cerca di fortuna, cercando l'oro nelle Montagne Rocciose, conducendo convogli e gestendo fattorie, fino alla Guerra Civile, quando fu arruolato nel controspionaggio dell'esercito yankee Fu allora, intorno al 1863, che scoprì nella caccia ai criminali la sua vera vocazione.
David J. Cook da giovane

Cook si affermò con una brillante carriera sia come uomo di legge pubblico, sia come detective privato, sia come uomo d'affari, dimostrandosi abile anche nell'investimento dei suoi guadagni professionali. Era un uomo di notevole prestanza fisica, ma sempre molto tranquillo e razionale, privo di vizi e dedito al lavoro e alla famiglia.
Nel 1882, pubblicò un'autobiografia intitolata Hands up! (Mani in alto!), probabilmente scritta in collaborazione con il giornalista Thomas F. Dawson, direttore del Denver Times. Questo libro, che narra le sue imprese in terza persona, fu uno dei bestseller americani del suo tempo ed ebbe diverse edizioni (anche pirata) arricchite, di volta in volta, da nuovi casi.
David J. Cook da vecchio

Cook svolgeva la sua attività investigativa in modo estremamente moderno, non limitandosi a raccogliere testimonianze e indizi, ma avendo anche cura di non interpretarli con troppa precipitazione, cercando se mai di verificare come si confermassero a vicenda. Aveva anche una visione razionale e quasi illuminista del Diritto, specie in riferimento al trattamento dei criminali catturati.
Nelle regole che imponeva ai dipendenti della sua agenzia (che, ai tempi, era considerata pari alla Pinkerton), precisava che:
le pistole sono armi da fuoco e non vanno usate come oggetti contundenti, perché rischiano di danneggiarsi e risultare poi inservibili quando servono;
gli arresti vanno effettuati solo con la sicurezza di averne l'autorità;
i criminali vanno sempre affrontati con la massima prudenza, anche quando appaiono remissivi;
un criminale arrestato non va maltrattato inutilmente, anche perché nessuno vuole essere arrestato da un sadico e, se si ha questa fama, si incontrerà sempre una dura resistenza;
non fidarsi delle dichiarazioni dei criminali, se queste non vengono convalidate da fatti oggettivamente riscontrabili.
Purtroppo, in alcune occasioni, i delinquenti arrestati da Cook, una volta affidati alle autorità locali per il processo, furono linciati dalla folla dopo che Cook era andato via.
Uno dei più celebri casi della carriera di Cook è quello che i biografi chiamano degli assassini italiani. Il 21 ottobre 1875, nel sotterraneo di una casa in rovina al numero 634 di Lawrence Street, alla periferia di Denver, in mezzo ai segni di una lotta cruenta, furono rinvenuti i corpi di 4 uomini barbaramente trucidati e sottoposti poi ad altre forme di scempio post mortem.
Con qualche difficoltà, i cadaveri furono identificati in un anziano immigrato italiano, noto come Zio Joe, e tre ragazzi che erano conosciuti come i figli e il nipote dello stesso. I loro nomi furono trascritti come Guiseppe Pecorra (esattamente così), con i figli Guiseppe e Giovanni e il nipote Luigi, di professione arrotini e suonatori ambulanti.
Una illustrazione d'epoca che ricostruisce il delitto

La loro casa era frequentata da altri italiani, come il lattoniere Filomeno Gallotti, il suo apprendista Antonio Dertiro e Michiele (proprio così) Ballotti. Non fu possibile interrogare anche questi, perché risultavano scomparsi. Il Gallotti era noto, nella comunità italiana, come un delinquente senza scrupoli che era fuggito dall'Italia proprio per evitare l'ergastolo. In seguito, emerse che i ragazzi uccisi non avevano alcun rapporto di parentela con il Pecorra, ma erano stati rapiti da piccoli e venivano costretti a lavorare per lui e a mendicare. Nonostante la miseria del contesto, gli inquirenti sospettarono subito che il Pecorra avesse messo da parte un piccolo tesoro di monete e fosse stato ucciso a scopo di rapina insieme ai ragazzi.
Cook, incaricato delle ricerche, allertò tutto il fitto sistema di contatti che aveva stabilito con gli altri uomini di legge del Paese, arrivando a telegrafare anche ai porti per evitare che gli assassini si imbarcassero.
I criminali, però, non erano andati tanto lontano. Dopo 21 giorni di ricerche, tre di essi furono sorpresi in un saloon di Trinidad, sempre in Colorado. Erano Michiele Ballotti, Silvestro Campagne e Leonardo Alessandri. Interrogati senza troppi riguardi, fecero subito i nomi dei loro complici (gli italiani Filomeno Gallotti, John Anatta, Frank Valentine, Guiseppe Pinachio, Leonardo Deodotta e il messicano Henry Fernandez) e raccontarono come erano andati i fatti.
Subito dopo, Cook predispose il loro trasferimento a Denver, che si rivelò più complicato del previsto per via della folla che si era raccolta in loro attesa con l'intenzione di linciarli. Senza troppi complimenti, Cook ordinò ai suoi uomini di puntare le armi sui più scalmanati e di fare fuoco senza pensarci due volte se avessero osato farsi avanti. La vista della armi spianate raffreddò di colpo tutti i bollenti spiriti.
Le informazioni ricavate dai tre permisero di arrestare uno alla volta tutti gli altri, che puntavano a fuggire in Messico, nel giro di pochi giorni, sempre grazie all'efficientissima rete di contatti di Cook, cui non sfuggiva nulla. Il capobanda Filomeno Gallotti, armato e pericoloso, fu arrestato con tramite un'imboscata che gli fu tesa a Taos, New Mexico, da Cook e due suoi uomini, che lo seguirono da un ricettatore e lo sorpresero alle spalle.
Dall'interrogatorio degli assassini, si apprese che l'uccisione del Pecorra e dei ragazzi e la successiva rapina, avevano fruttato la refurtiva di circa 1.400 dollari. In realtà, la banda era già dedita da tempo a pratiche criminali di questo tipo, sempre ai danni di altri immigrati italiani, tramite le quali aveva già messo insieme un malloppo di 6.000 dollari.
I ciminali che sotterrano il malloppo, in una illustrazione del tempo

Il processo fu istruito a Denver tra l'aprile e il maggio del 1876. Poiché gli assassini si accusavano a vicenda e non c'erano altri testimoni, la giuria si trovò in difficoltà nello stabilire di chi fossero le responsabilità dirette dei delitti. Nel dubbio, il giudice preferì non infliggere la pena capitale, condannando Gallotti, Valentine e Ballotti all'ergastolo e Campagna, Anatta e Alessandri a 10 anni di reclusione. Gli altri imputati furono assolti.


Altre tre illustrazioni d'epoca sulle imprese di David J. Cook