Il fondo dell'orrore, fino ad allora
soltanto subito, fu appena intravisto, per la prima volta, da Anton
Cechov, il grande scrittore russo. Era il 1890 e Cechov si trovava
alla colonia penale di Sachalin, un'isola del Pacifico
settentrionale, dove si era recato per scrivere un reportage sulle
condizioni dei prigionieri. Tali condizioni, come si può immaginare,
erano terrificanti, e il lavoro di Cechov ebbe una tale risonanza da
indurre il governo russo a ordinare una serie di ispezioni e emanare
una serie di regolamenti per limitare e sanzionare gli abusi dei
sorveglianti sui prigionieri.
Un giorno, Cechov assistette a una
fustigazione pubblica e, da medico quale era, intuì che la violenza
del supplizio, sicuramente spropositato rispetto a qualsiasi
violazione potesse essere stata attribuita al condannato, avrebbe
facilmente condotto quest'ultimo alla morte. Ma, a colpirlo, più
ancora dell'assurdità del sistema sanzionatorio, fu il compiaciuto
sadismo con cui il sorvegliante incaricato di frustare il condannato
continuava a menare colpi di una violenza inaudita, certo provando
una perversa soddisfazione al pensiero di uccidere l'uomo che aveva
davanti. Cechov, a un certo punto, dovette andarsene, disgustato
oltre ogni limite; ma registrò nei suoi appunti una considerazione
che è rimasta celebre. Scrisse infatti che, se fosse mai stato
costretto a scegliere se essere il condannato o il carnefice, avrebbe
preferito mille volte essere il condannato, che era senz'altro
l'ultimo degli uomini, ma almeno un uomo; mentre il carnefice, per
lui, non era degno neppure di essere considerato un essere umano.

A. P. Cechov (1860-1904) in un ritratto del 1898
Due edizioni italiane di L'isola di Sachalin
Davanti a quello che pare un orrore
senza fine, l'istinto e l'emozione ci portano a dimenticare che
l'orrore non ha fine, che ce ne può sempre essere uno ancora
peggiore.
I criminali che, ebbri di un fanatismo
accecante, scagliarono le loro bottiglie Molotov contro il bar
“L'Angelo azzurro” a Torino il 1° ottobre 1977 erano convinti,
nella loro perversa idiozia, di colpire davvero qualcuno che
rappresentava un “nemico” per la loro causa. Era la mentalità
della faida, quell'idea tribale di giustizia che caratterizzava le
società in cui l'arbitrio si faceva legge, legittimato dalla
prepotenza. Un atto barbaro, sanguinario, pre-civile, eppure
sgradevolmente umano, tipico del peggio dell'umanità.
Invece i criminali che, ebbri di un
fanatismo analogo, scagliarono le loro bottiglie Molotov in mezzo
alle auto che attraversavano via Foria a Napoli il 17 giugno 1975,
sapevano perfettamente che tra la gente che avrebbero colpito c'erano
persone ignare ed estranee a ogni logica di “lotta”, eppure le
lanciarono lo stesso. Con questo, si posero letteralmente al di fuori
del genere umano. Un atto ferino, bestiale, pre-umano, capace di
provocare orrore perfino al peggio dell'umanità.
E, per questo, anche è sempre doloroso
parlarne, anche se si vorrebbe cancellare ogni loro ricordo dalla
memoria individuale e collettiva, si deve parlare ancora di loro. Sia
perché è Storia e chi non conosce la Storia è condannato a
ripeterla; sia perché è doveroso dare voce alle esistenze spezzate
delle vittime, vittime completamente innocenti cui spetta ogni
diritto di continuare a esistere almeno nella memoria di chi sa.
Su Roberto Crescenzio, ucciso nel rogo
dell'Angelo Azzurro, scriveremo in un prossimo pezzo.
Oggi parliamo invece di Iolanda Palladino, morta a 21 anni il 21
giugno 1975 per opera di quelle che possiamo definire mani
disumanamente criminali.
Iolanda Palladino è una studentessa di
Legge, ultima dei 4 figli del cuoco di un celebre ristorante, “Mimì
alla Ferrovia”. Diplomata geometra all'istituto tecnico “Della
Porta”, guadagna qualcosa lavorando come generica in teatro,
soprattutto nelle “sceneggiate”, che in quel periodo richiamano
folle di spettatori. È
una ragazza bellissima, che ricorda (in meglio) Ornella Muti, diva
emergente del periodo. Una scherzosa leggenda del tempo racconta che,
quando esce in strada insieme alla sorella maggiore Nilde (che
l'attrice la fa sul serio), non si ferma solo il traffico, si fermano
pure gli orologi.
"Mimì alla Ferrovia", oggi
Ha
passato il pomeriggio di martedì 17 giugno a studiare per un esame.
In serata, le viene in mente all'improvviso qualcosa che deve dire al
suo ragazzo, il figlio del proprietario del cinema “2000” di
piazza Carlo III. Cerca di telefonargli, ma la linea di casa è
isolata. Allora raccoglie un po' di gettoni, scende in strada e va a
chiamarlo da una cabina telefonica, proprio di fronte. Ma è isolata
anche questa, c'è un guasto e non c'è linea in tutta la zona
intorno alla chiesa del Carmine, dove abita. Allora decide di andare
a parlargli personalmente, al cinema, dove lui adesso sta lavorando.
È
una passeggiata che a piedi durerebbe una ventina di minuti, ma lei
ha la macchina (la Fiat 500 che le hanno regalato i genitori per la
maturità) e prende quella. Conta di metterci molto poco e infatti
non sale neppure a cambiarsi, si tiene addosso il largo abito estivo
e gli zoccoli che porta normalmente in casa.
Piazza Carlo III, oggi
La Chiesa del Carmine
Al
cinema “2000” si trattiene un po', forse le viene voglia di
vedere un po' del film in proiezione, forse lei e il fidanzato si
mettono a chiacchierare e non si rendono conto del passare del tempo.
Quando si rimette in moto verso casa, è ormai notte: deve avviarsi
per via Foria, svoltare per via Carbonara e tagliare il Rettifilo.
Non ci vuole molto, in assenza di traffico.
Ma
stasera, nonostante l'orario, le strade sono piene di gente. Nei due
giorni precedenti, 15 e 16 giugno, si sono tenute le elezioni
amministrative e oggi è stato completato lo spoglio. Per la prima
volta nella storia di Napoli, la corsa a sindaco è stata vinta da un
candidato del PCI, Maurizio Valenzi, un pittore di non trascurabile
rilievo nel panorama dell'arte italiana del '900 (alcune sue opere
sono visibili nel museo “Napoli Novecento” a Castel Sant'Elmo),
rompendo l'egemonia della DC che durava dalla caduta di Achille
Lauro, il celebre sindaco monarchico che aveva dominato la scena
politica degli anni '50 (e fatto la fortuna della più selvaggia
speculazione edilizia, innescando vorticosi giri di mazzette, così
come raccontato dal film “Le mani sulla città” di Francesco
Rosi).
Maurizio Valenzi appena eletto sindaco
Alcune opere di Valenzi
Il PCI, in realtà, ha vinto sul filo di lana: ha ottenuto
poco più del 32% dei voti e, anche se resta il partito più votato,
per mettere in piedi una giunta e avere la maggioranza in Consiglio
Comunale, dovrà comunque ricorrere a delle alleanze con
democristiani e socialisti. Fatto che sarà, alla lunga, la fortuna
di Valenzi, che resterà alla guida della città per 8 anni, cercando
inutilmente di cooptare le migliori intelligenze cittadine alla causa
del bene comune. Infatti, i suoi continui tentativi di rendere più
efficiente l'elefantiaca macchina amministrativa municipale si
scontreranno sempre con le resistenze di onnipotenti gruppi di potere
interno (specie vigili urbani, dipendenti del trasporto pubblico e
netturbini) che non vogliono saperne di rinunciare ai tanti privilegi
concessi dai precedenti sindaci; anche perché sono spalleggiati da
sindacati corporativi e clientelari di ogni colore, che fanno il
bello e il cattivo tempo e sono spesso trampolino di lancio per
fulminanti carriere politiche che successivamente naufragheranno
sugli scogli di inchieste giudiziarie, già prima di Tangentopoli.
Sono tempi in cui i sindaci non hanno il potere che hanno avuto dopo
le riforme degli anni '90, non esiste nemmeno una regolamentazione
del diritto di sciopero e chiunque può permettersi di paralizzare
l'intera città senza scontare conseguenze. Valenzi rischierà dunque
spesso di essere “abbattuto dal fuoco amico”, e a salvarlo
saranno sempre le sue eterogenee alleanze.
Ma
tutto questo è molto di là da venire e a molti napoletani sembra
davvero che la sua elezione metta la parola “fine” a una
interminabile stagione di clientele e bustarelle. Perciò,
all'annuncio del risultato elettorale, sono scesi in strada a
festeggiare e via Foria è piena di caroselli di auto che suonano il
clacson. Anche Iolanda lo ha votato e, forse, nonostante la seccatura
delle code, questa situazione le mette pure allegria. Però a stare
chiusa nel piccolo abitacolo fa caldo, e quindi spalanca il tettuccio
apribile dell'auto.
Ma
c'è anche chi non è per nulla contento dell'elezione di Valenzi.
Via Foria ospita una sezione del MSI che ha già avuto problemi con
la polizia per via delle intemperanze di alcuni suoi iscritti. Il
nome è già tutto un programma: “Giovanni Berta”. Giovanni
Berta, fiorentino, classe 1894, è stato un reduce della Libia e
della Grande Guerra, e soprattutto uno squadrista della prima ora. Fu
ucciso in circostanze mai del tutto chiarite (forse in uno scontro
tra fascisti e comunisti, forse aggredito da un gruppo di comunisti
che lo aveva riconosciuto mentre era in strada, forse anche in altri
modi: l'unica cosa certa è che fu gettato nell'Arno dal Ponte
Sospeso e vi annegò) nel febbraio 1921. La propaganda fascista ne
fece un vero martire, superando ogni limite di decenza (esiste anche
una celebre canzone, diffusissima nel Ventennio, in cui Berta viene
addirittura spacciato per uno studentello quattordicenne) e il suo
“culto” è tuttora vivo nelle file dell'estrema destra. A
dirigerla è Michele Florino, un giovane molto ambizioso che, in
queste amministrative coglie il suo primo importante successo,
venendo eletto al Consiglio Comunale (del resto, il MSI in città va
benissimo, supera il 18% dei consensi). L'esperienza municipale sarà
solo il primo passo della carriera fortunata politica di Florino, che
negli anni successivi diventa una presenza abbastanza assidua sulle
tv private partenopee (tutte in mano a imprenditori simpatizzanti del
MSI) anche se non arriva alla popolarità di qualche suo compagno di
partito, come i pittoreschi neoborbonici Angelo Manna e Ugo Fedi, che
pure vivranno carriere politiche di tutto rispetto.

via Foria, oggi
I
personaggi che frequentano la “Giovanni Berta” sono spesso
soggetti molto pericolosi. A Napoli, come in tutte le città
italiane, è rimasta una certa quota di popolazione che rimpiange gli
anni del fascismo come l'età d'oro della propria vita. Il regime,
che prima ancora di abolire le libertà abolì le coscienze, viene
rimpianto per la sua fin troppo esagerata generosità verso i
sostenitori (nei primi anni da Duce, Mussolini decuplicò gli
organici della pubblica amministrazione per sistemarne quanti più
possibile) e perché, essendo già corrottissimo di suo, chiudeva
facilmente tutti e due gli occhi su ogni genere di traffico e
contrabbando, purché ognuno ricevesse la propria parte. Per non dir
niente delle avventure coloniali dell'Impero, tutte rivelatesi
occasioni di facile arricchimento per un esercito di maneggioni, e
poco importa delle atrocità commesse ai danni degli indigeni. Si
rimpiangono del pari anche gli anni in cui si era liberi di depredare
gli ebrei, privati di qualunque diritto. Qualcuno non ne ha
approfittato, pochi si sono opposti, ma molti ci hanno mangiato a
quattro palmenti, con tutta la protervia dei pezzenti risaliti.
La
caduta del fascismo, per tutta questa fauna, ha rappresentato
soltanto la fine della pacchia, e l'impossibilità a partecipare alla
successiva spartizione dei favori regalati per ragioni clientelari
dai nuovi padroni, in quanto segnati a vita da un marchio d'infamia.
Per questo, non poche famiglie hanno cresciuto letteralmente i propri
figli a pane e odio, coltivando sistematicamente un rancore sempre
più cupo e feroce, ossessivo, paranoico, verso tutti i non fascisti;
ad alimentarlo, volenti o nolenti, si sono aggiunti i profughi
istriani che, arrivati in gran numero alla fine degli anni '40, hanno
raccontato delle nefandezze che gli slavi hanno riservato agli
italiani di quell'area, guardandosi bene però dal precisare che in
precedenza i fascisti avevano riservato lo stesso trattamento agli
slavi stessi; ci sono perfino famiglie che il 25 aprile si chiudono
in casa e tengono spente radio e televisione perché per loro quello
della Liberazione è un giorno di lutto, anche se non hanno perso
nessuno.
Il
giorno che Valenzi vince le elezioni amministrative, ai neofascisti
della “Giovanni Berta” (ma non solo a loro) viene letteralmente
un travaso di bile. Valenzi non è solo comunista, è pure ebreo.
Qualcosa che a loro suona veramente intollerabile.
Di
ciò che avviene dopo, abbiamo le risultanze processuali, che hanno
sempre lasciato molti dubbi aperti ma sono l'unica testimonianza che
ha valore ufficiale.
Sono
circa le 23,15 quando la 500 di Iolanda Palladino passa davanti alla
scalinata di via Michele Tenore, di lato all'Orto Botanico, che
conduce alla Facoltà di Veterinaria. Da lì, ancora pochi metri, poi
svolterebbe a sinistra per via Carbonara e lascerebbe via Foria.
Proprio in quel momento, però, l'abitacolo dell'auto esplode in una
improvvisa fiammata. Iolanda quasi non capisce cosa stia accadendo,
ma ha la presenza di spirito di spalancare lo sportello e gettarsi
fuori dall'auto. La gente intorno sta fuggendo in tutte le direzioni,
ma alcuni si precipitano a soccorrere quella ragazza che corre per
strada con i capelli e gli abiti in fiamme. Un giovane, Orlando
Giannuzzi Savelli, spegne le fiamme che la avvolgono soffocandole con
la propria camicia. Poi, facendosi aiutare da un altro passante,
Vincenzo Giacco, la carica sulla propria auto e la porta all'ospedale
più vicino, quello degli Incurabili. Iolanda è talmente sotto choc
che non sembra rendersi conto delle sue condizioni: chiede da fumare,
si preoccupa dell'auto e dei capelli, dice che forse avrebbe fatto
meglio a non uscire.

via Carbonara, oggi
All'ospedale,
trovano che è coperta di ustioni per oltre il 60% del corpo. Agli
Incurabili non sono attrezzati per curarla: la portano al maggiore
ospedale napoletano, il Cardarelli. Passato lo choc, la sofferenza si
fa terribile: i familiari, appena accorsi, la sentono gridare di
dolore dall'interno del reparto. I medici dicono che ci sono meno del
10% di probabilità di salvarla, ma le tentano tutte. Le trovano
anche un posto al centro grandi ustionati dell'ospedale Sant'Eugenio
di Roma, in quel momento il più importante d'Italia. Viene
trasferita qui il 19, ma non serve a nulla. Il 21 giugno, Iolanda
Palladino, dopo essersi confessata con il cappellano, perde
definitivamente conoscenza e in poche ore l'elettroencefalogramma
diventa piatto. Non ha ancora compiuto 21 anni.
I quotidiani danno la notizia del decesso di Iolanda
La
polizia, compiendo i primi rilievi, scopre subito cosa è successo.
La 500 di Iolanda è stata colpita da una bottiglia Molotov, che è
penetrata nel tettuccio aperto prima di esplodere. Sui gradini di via
Tenore, sono rimaste altre quattro bottiglie incendiarie pronte a
essere lanciate, una tanica contenente ancora mezzo litro di benzina
e altro materiale che serve a preparare gli inneschi. Qualcuno
racconta che qualche giorno prima un netturbino aveva trovato nello
stesso punto altre 4 bottiglie incendiarie e che pure si era pensato
che fossero roba dei tipi della “Giovanni Berta”, ma nessuno ha
fatto nulla. Ora però non si può più far finta di niente. Tutti
gli iscritti alla sezione missina finiscono fermati e interrogati in
questura. Due sono arrestati subito: i fratelli Giuseppe e Bruno
Torsi, operai, di 19 e 16 anni. Qualche giorno dopo viene arrestato
anche un cameriere di 20 anni, Umberto Fiore, che ha tentato
inutilmente di fuggire e di nascondersi a Ischia. Finiscono
processati con l'accusa di omicidio volontario, insieme a Florino
accusato di favoreggiamento. L'esito del processo è a dir poco
ridicolo, per un delitto di tale gravità. Umberto Fiore si becca sei
anni e otto mesi, i due Torsi pene minori (al punto che il maggiore,
Giuseppe, già nel 1979 sarà libero di farsi arrestare di nuovo, in
quanto appartenente a un altro gruppo di terroristi di destra, quella
di Paolo Bianchi, noto sia per le rapine sia per le soffiate alla
polizia, grazie alle quali sono stati arrestati personaggi come
Vallanzasca e Concutelli). In Appello le pene vengono ridotte e poi
perfino in parte condonate. Florino è assolto per insufficienza di
prove: tutti i “camerati” affermano che i tre si allontanarono
spontaneamente dalla sezione mentre lui era andato a prendere delle
pizze con cui festeggiare l'avvenuta elezione al Consiglio Comunale.
Al
funerale di Iolanda, il 24 giugno, i neofascisti arrivano addirittura
alla spudoratezza di provocare la folla dei partecipanti, appendendo
lungo il tratto che il corteo doveva percorrere uno striscione con su
scritto “Né Dio né gli uomini fermeranno la violenza fascista”
(altri riportano: “Solo Iddio può piegare la volontà fascista,
gli uomini e le cose mai”). Alcuni dei presenti lo strappano via,
altri si scagliano contro la sede della “Giovanni Berta”, ma la
polizia la sta presidiando e non esita a caricare un corteo funebre,
mentre i neofascisti ne approfittano per far esplodere bombe carta.
Il giorno dopo la stampa di sinistra tuonerà pesantemente contro il
questore di Napoli, Zamparelli, di cui sono note le simpatie
fasciste, ma nessuno prenderà mai il minimo provvedimento.
Due momenti del funerale
Un articolo sul funerale
La
famiglia Palladino non ha mai ricevuto alcun risarcimento, ma forse
sarebbe il caso di dire alcuna attenzione dallo Stato Italiano. Il
sindaco Valenzi regala loro una piccola cappella nel cimitero di
Poggioreale, dove oggi Iolanda riposa accanto ai genitori e alle
sorelle Teresa e Nilde, anch'esse morte giovani, ma per cause
naturali. L'unico superstite della famiglia, il fratello Ciro, se n'è
andato a lavorare in Veneto, ha una figlia che si chiama Iolanda ed è
un convinto attivista dell'Associazione Italiana Vittime del
Terrorismo e dell'Odio Politico, presieduta da Marco Falvella,
fratello di Carlo, uno studente missino di Salerno che fu ucciso
durante una rissa con degli anarchici nell'estate del 1972.
La
carriera politica di Michele Florino, per molto tempo, non ha
conosciuto pause. Dal Comune di Napoli è finito in Parlamento, prima
tra le file del MSI (1984), poi di AN (fino al 2006), per poi seguire
Francesco Storace in La Destra, poi Fiamma Tricolore e infine
approdare a Casapound, con cui non è sceso direttamente in campo,
preferendo candidare sua figlia Emanuela. Nel trentennale della
scomparsa di Iolanda, fa scalpore (ma solo per un breve periodo) la
sua decisione di tappezzare l'area del centro di Napoli, soprattutto
a via Foria, con una serie di manifesti che stigmatizzavano la pena
troppo lieve (15 anni) inflitta all'assassino di Fabio Nunneri, un
ragazzo accoltellato mentre cercava di sedare una rissa. Ma nessuno
va a chiedergli conto delle pene ricevute trent'anni prima dai suoi
“camerati”.
Nel
quarantennale, un'associazione culturale della zona ottiene dal
Comune il permesso di porre una targa in memoria di Iolanda nel luogo
in cui fu uccisa. Dopo pochi giorni, la targa sparisce. Ne viene
posta un'altra identica e sparisce pure questa. Poco distante, nella
ex sede della “Giovanni Berta”, c'è una sezione di Casapound. Ma
forse è solo un caso.
L'inaugurazione della sede di Casapound in via Foria
Finalmente,
nel dicembre del 2016, con una cerimonia accompagnata da grande
partecipazione popolare, il sindaco De Magistris intitola alla
memoria di Iolanda la scalinata da cui i suoi assassini lanciarono la
bottiglia incendiaria. Almeno, questa volta, nessuno potrà far
sparire più niente.
Le scale intitolate a Iolanda Palladino