martedì 26 gennaio 2021

"L'unico gioco che conta" e l'unico titolo di Eliot Asinof tradotto in Italiano

I meccanismi che sovrintendono alle scelte dei diversi editori di libri sono notoriamente misteriosi e spesso portano a situazioni paradossali. Come ad esempio quella di uno scrittore notissimo in patria, ossia negli Usa, del quale non arrivano però libri in Italia, nemmeno quando vi arrivano i film da essi ricavati. Ma, alla fine, un libro vi arriva: solo che è quello di gran lunga meno conosciuto tra i suoi in patria, tanto che nessuno degli articoli dedicati all'autore lo cita, anche se la copertina si può ugualmente ricavare da immagini prese da siti di libri usati.

In realtà, questo si spiega anche con il fatto che l'autore è uno che si è dedicato soprattutto alla narrativa e alla saggistica di argomento sportivo (ma non solo a quello), concentrandosi ovviamente sugli sport preferiti dagli americani, il baseball e il football, che in Europa, notoriamente, hanno poco seguito.

Ma ridurre la carriera di scrittore di Eliot Asinof alla semplice redazione di saggi e romanzi a tema sportivo, significa dimenticare che è stato anche un autore seriamente impegnato in battaglie civili e ha per questo pagato un prezzo di quelli che oggi farebbero gridare allo scandalo.



Eliot Asinof in gioventù e da vecchio

Eliot Asinof, nato a Manhattan, New York, il 13 luglio 1919 e morto all'ospedale di Hudson, sempre New York, il 10 giugno 2008 per l'aggravarsi di una polmonite, apparteneva a una modesta famiglia di sarti di religione ebraica e sembrava destinato a imparare lo stesso mestiere del padre e del nonno, ma la sua bravura come studente della High School lo portò a vincere una borsa di studio per il Williams College di Swarthmore, vicino Philadelphia, dove si fece conoscere come ottimo giocatore di baseball, nel ruolo di prima base, diventando capitano della rappresentativa universitaria e guadagnandosi (dopo brevi esperienze nelle squadrette della cittadina di Chester e in quella di St. Albans, nel Vermont) un ingaggio da semiprofessionista nella squadra dei Philadelphia Phillies (che disputavano la Minor League) dopo la laurea.

La sua carriera fu interrotta dopo due stagioni (1940 e 1941) perché, con lo scoppio della guerra, fu chiamato in servizio dall'esercito americano e inviato all'isola di Adak, nelle Aleutine. Al ritorno, decise di dedicarsi al giornalismo sportivo. I suoi testi piacquero molto e si trovò cooptato come sceneggiatore nel mondo del cinema e in quello della neonata televisione.

Commise però l'errore di sottoscrivere, nel 1947, una petizione per chiedere parità di trattamento economico per i giocatori di colore nelle leghe nazionali di baseball, a quel tempo discriminati. Ciò bastò, insieme alle sue origini ebraiche, a farlo finire prima sotto il controllo della CIA e poi nella lista nera della Commissione per le Attività Antiamericane. Fu dunque costretto a lavorare sotto pseudonimo per tutta la durata del Maccarthismo.

Durante la sua permanenza a Hollywood, intrattenne una breve relazione con una giovanissima attrice portoricana, Rita Moreno, che gli presentò Marlon Brando e la sorella maggiore di questo, Jocelyn, anche lei attrice abbastanza nota in quel periodo. Jocelyn Brando divenne la moglie di Asinof nel 1950: i due si sarebbero separati nel 1955, dopo aver avuto un figlio, Martin.


Rita Moreno (1931)

Jocelyn Brando (1919-2005)

Jocelyn Brando con il fratello Marlon e altri amici

Jocelyn Brando con Glenn Ford nel backstage del suo più importante film, The Big Heat, di Fritz Lang

In quello stesso 1955, Asinof pubblicò il suo primo romanzo, Man on Spikes, ispirato alle esperienze del suo amico Mickey Rutner, che giocò l'intera carriera in Minor League tranne una sola stagione in Major League. Questo libro è stato giudicato uno dei migliori mai scritti sul baseball.


Mickey Rutner (1919-2007)

Dopo il divorzio, era tornato a New York. Nel 1963, pubblicò Eight Men Out, il primo e più noto dei suoi libri sullo scandalo del 1919, quando otto giocatori dei Chicago White Socks furono radiati per aver perso deliberatemente delle partite di World Series per una questione di scommesse pilotate dal boss della malavita ebrea Arnold Rothstein.





Gli otto giocatori che finirono radiati
Gli otto al processo
Arnold Rothstein (1882-1928)

Eight Men Out nacque come sceneggiatura cinematografica, ma il film non fu più prodotto per l'opposizione della Lega del Baseball e Asinof ne ricavò un'opera a metà tra un saggio e un romanzo, sicuramente molto documentata (vi lavorò per tre anni, intervistando tutti i testimoni ancora in vita) ma in certi punti alquanto arbitraria nelle conclusioni, almeno stando al giudizio moderno.

Il film si fece poi comunque, 25 anni dopo, nel 1988, con la regia di John Styles. Una forte eco della vicenda è palese nel film L'uomo dei sogni (Field of dreams), che è stato un grande successo anche in Italia, nel 1989 grazie anche alla presenza, nel cast, di nomi quali Kevin Costner e Burt Lancaster.







Il periodo di maggiore attività di Asinof è quello tra la fine degli anni '60 e gli anni '70, quando escono romanzi come The Bedfellows (1967) sulle difficoltà di un uomo di colore a fare carriera nel mondo della pubblicità, People Vs. Blutcher (1970) sulle vicissitudini di un commerciante di colore nei guai con la giustizia, Craig and Joan (1971), in cui due ragazzi del New Jersey si uccidono per protestare contro la guerra del Vietnam (nel 1967 Asinof aveva partecipato anche alla protesta fiscale contro la guerra), The 10 Second Jailbreak (1973) sulle avventure di uno stravagante criminale (questo libro diventerà anche un film con Charles Bronson), Say It Ain't So, Gordon Littlefield (1977) su un tentativo di combine nel football; e saggi come Seven Day to Sunday (1968) sulla squadra di football dei New York Giants e The Fox Is Crazy Too (1976) sul dirottatore Garrett Brock Trapnell.
















Dopo un caustico libro autobiografico sulle sue esperienze di sceneggiatore a Hollywood, Bleeding Between the Lines (1979) di cui non si riesce a trovare un'immagine della copertina su tutto il web, diradò le sue pubblicazioni in volume, anche perché impegnato nella realizzazione del film da Eight Men Out (nell'occasione scrisse un altro saggio sull'argomento).

Firmò ancora tre romanzi: Strike Zone (1995) cui non era estranea la vicenda di Dick Pohle, un 36enne del Maine che ottenne un contratto da professionista nel baseball spacciandosi per un ragazzo australiano di 21 anni con il nome Rocky Perone; Off-Season (2000) combina gli illeciti sportivi con i delitti e le tensioni razziali; Final Judgement (2008) è pieno di polemica verso l'amministrazione Bush. Un ultimo manoscritto, dedicato alle sue esperienze alle Aleutine durante la guerra, completato poco prima di morire e descritto dal figlio in un necrologio, non risulta pubblicato.




E veniamo all'unico titolo uscito in Italiano: The Name of the Game is Murder, uscito originariamente nel 1968, viene tradotto nel Giallo Mondadori e presentato l'8 novembre 1970 con il numero 1136 e il titolo L'unico gioco che conta. Come già detto, si tratta sicuramente di un'opera minore, mai menzionata dalle bibliografie.






Si tratta di un romanzo di genere mystery, incentrato su un delitto in ambiente sportivo, sul quale indaga la polizia. Asinof fa propri alcuni tipici cliché del genere, come il poliziotto di mezza età deluso e disincantato ma dal cuore sensibile, costretto ad avere a che fare con gente convinta che il denaro possa comprare tutto.

Da notare come la traduzione appaia oggi incredibilmente antiquata: la squadra sportiva al centro dell'intreccio è quella dei “New York Bulls” (una commistione tra nomi di squadre reali) e pratica, palesemente, il football. Ma, poiché il lettore del 1970 avrebbe fatto molta confusione con i termini, nella traduzione, il football diventa rugby.

L'allenatore dei “Bulls”, Bart Fain, è stato pugnalato a morte mentre faceva la doccia nello spogliatoio dello stadio, subito dopo l'ennesima partita persa dai suoi in una stagione sfortunatissima. Il tenente Michael Ogden, chiamato a investigare, è anche un tifoso sfegatato della squadra ed è molto addolorato personalmente per il fatto, perché considera Fain il principale artefice di una lunga serie di vittorie, che però è stato trattato da capro espiatorio appena la squadra ha affrontato una stagione storta.

Il mondo che gravita intorno ai “Bulls” è dorato e falso, a partire dal presidente Sylvester che è così reticente da destare sospetti, per arrivare all'allenatore in seconda, ai giocatori e perfino alla guardia del corpo di Fain, che ha svolto il suo lavoro in modo palesemente negligente.

Ogden, rimasto precocemente vedovo, ha sbattuto fuori di casa il figlio adolescente beatnik e soffre dentro di sé per questo. A fargli da contraltare è il suo principale collaboratore, il sergente Earl Kingsley, con il quale ha un rapporto di sotterranea rivalità, anche se i due si apprezzano professionalmente a vicenda e l'umorismo di Kingsley è l'unica cosa che riesca a tirare su di morale Ogden.

Tra tutti i sospettati, emergono tanti di quegli intrecci che a uccidere Fain potrebbe essere stato chiunque: i giocatori per i loro pessimi rapporti con il coach, il vice per fargli la scarpe, il massaggiatore perché innamorato della moglie, la moglie stessa perché la coppia era sul punto di scoppiare, la figlia perché ha una relazione con un giocatore difficilmente gestibile, ecc.

Un importante testimone, un giovane playboy che bazzica l'ambiente della squadra ed è intimo di molti giocatori, muore misteriosamente subito prima di essere interrogato. Sembrerebbe un suicidio, ma Ogden è tutt'altro che convinto. La traccia che parte dal playboy porta a un allibratore ma, anche se questo è un tipo estremamente losco, manca il movente.

In realtà, qualcosa emerge dalla testimonianza di una prostituta della quale il morto era cliente abituale: Ogden ha sopravvalutato la sincerità della vedova, per la quale ha subito provato una forte affinità personale. Per verificare i suoi sospetti, va a interrogarla di nuovo e a questo punto trova conferma del fatto, da lui giù sospettato, che se la intendesse con l'allibratore. I due tentano di eliminarlo ma il provvidenziale intervento di Kingsley abbatte l'uomo e permette di arrestare la donna. Ogden, sopravvissuto proprio quando si aspettava di essere alla fine, decide di andare a ritrovare suo figlio per riportarlo a casa.

Benché molti personaggi appaiano un po' stereotipati, il romanzo è scorrevole, ben scritto e, fatta la tara ai segni del tempo, dotato di un discreto fascino. “L'unico gioco che conta” è quello in cui a essere in palio è la vita. La competenza tecnica dell'autore non si perde nemmeno nella traduzione un po' arrangiata. La passione per lo sport non è la stessa di adesso, è sicuramente più sincera e partecipata, ed il fascino dei suoi riti collettivi è reso in modo più che credibile.

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