La mattina del 25 aprile 1977, in un
punto dell'Oceano Pacifico che si trova circa 30 miglia a Est di
Christchurch, Nuova Zelanda, il pescherccio giapponese Zuiyo Maru
aveva gettato le reti a strascico in mare, per pescare sgombri alla
profondità di circa 300 metri. Nel tirarle su, i marinai si resero
conto di aver preso qualcosa di molto più pesante del solito:
qualcosa che appena riemersa apparve come un'unica carcassa, pesante
quasi 2 tonnellate e dall'aspetto mai visto prima.
Un'immagine della Zuiyo Maru
La carcassa era già parzialmente
decomposta, e il capitano Akira Tanaka pensò in un primo tempo che
fosse una balena morta, ragione per cui decise di disfarsene prima
che infettasse il pescato che era accumulato sul ponte. Gli altri 17
membri dell'equipaggio non erano così sicuri che si trattasse di una
balena: ad alcuni, sembrava piuttosto una tartaruga con il guscio
staccato.
Un tecnico della compagnia Tayo Fish
Company, per conto della quale la Zuiyo Maru navigava, Michihiko
Yano, che era imbarcato a bordo e aveva compiuto studi di
oceanografia, volle vederci più chiaro. Intanto che il capitano
decideva cosa fare, si fece prestare una fotocamera da un marinaio e
scattò 5 immagini della creatura. Si avvicinò poi ad essa e, oltre
a prendere una serie di misure, prelevò da una delle pinne, che
aveva a portata di mano, una serie di 42 piccoli frammenti, con
l'intenzione di farli analizzare da un laboratorio una volta tornato
a terra.
Tre delle cinque foto scattate da Michihiko Yano
Uno schizzo con cui Yano ricostruì i dettagli della carcassa in base alle misure prese
Infine, il capitano ordinò di
scaricare la carcassa in mare. Dal momento in cui era emersa a quello
in cui affondò rapidamente, era passata meno di un'ora.
Yano tormò in Giappone, dopo essere
stato trasbordato su un'altra nave, il 10 giugno 1977, e subito portò
a sviluppare le immagini che aveva scattato alla creatura. Poi
realizzò una serie di schizzi che illustravano l'aspetto della
creatura, ricavandoli dalle immagini e delle misure che aveva preso.
Infine portò ad analizzare i campioni nei laboratori della Tayo Fish
Company.
I dirigenti della Tayo Fish Company,
messi al corrente del fatto, contattarono alcuni scienziati, i quali
affermarono di non aver mai visto nulla di simile. L'opinione comune
era che si trattasse di un Plesiosauro, ossia che appartenesse a una
classe di grandi rettili marini (oltre 15 metri di lunghezza) vissuti
tra il Triassico Superiore (che inizia circa 330 milioni di anni fa)
e il Cretaceo Superiore (che termina circa 65 milioni di anni fa),
ritenuti estinti come tutti gli altri dinosauri.
Il 20 luglio 1977, dato che la notizia
cominciava a diffondersi in modo ufficioso, i vertici della Tayo Fish
Company convocarono una conferenza stampa e rivelarono la scoperta,
anche se le analisi dei 42 frammenti prelevati da Yano non era ancora
stata completata. La notizia ebbe molto risalto sui quotidiani, così
come nelle stazioni radiofoniche e televisive, che intervistarono
scienziati famosi in tutto il Paese, come gli zoologi Yoshinori
Imaizumi del Museo Nazionale di Tokio e Tokio Shikama della Yokohama
National University, ricevendo, se non esplicite conferme, almeno
delle aperture (Imaizumi affermò che la creatura non appariva né un
pesce né un mammifero ma quasi sicuramente un rettile gigante marino
e Shikama confermò che anche a lui sembrava un Plesiosauro).
Una ricostruzione di un Plesiosauro basata su dati paleontologici
Uno scheletro completo di Plesiosauro neonato recentemente ritrovato
Gli scienziati occidentali apparvero da
subito molto più scettici. Il paleontologo americano Bob Schaeffer
osservò che almeno una volta ogni dieci anni i pescatori giapponesi
si imbattevano in qualche “dinosauro”, che poi si rivelava
puntualmente appartenente a specie che si trovano normalmente nei
mari. L'inglese Alwyne Wheeler, un altro paleontologo, ipotizzò che
fosse uno squalo, giustificando questa possibilità con il
particolare tipo di decomposizione cui vanno soggetti gli squali.
Altri scienziati proposero altre ipotesi.
Alla soluzione del mistero si aggiunse
un tassello decisivo quando il 25 luglio 1977, sollecitato da tutti,
il laboratorio di analisi della Tayo Fish Company fornì i risultati
dei test biochimici svolti sui 42 campioni attraverso la
cromatografia a scambio ionico, una tecnica di laboratorio che
permette, tra l'altro, di separare gli amminoacidi di un campione
proteico e di deteminare l'abbondanza relativa dei diversi
amminoacidi nel campione stesso, che è caratteristica dei dei
diversi gruppi di viventi al punto da permettere di determinare con
certezza l'appartenenza a un gruppo piuttosto che ad un altro. Tali
analisi mostravano che, dal punto di vista biochimico, i campioni
provenivano senza ombra di dubbio da uno squalo.
Tuttavia, la notizia non risolse la
controversia sulla natura dell'animale. Anzi, in Giappone si continuò
a parlare della scoperta di un Plesiosauro e, addirittura, il 2
novembre 1977, il governo giapponese celebrò l'evento emettendo
addirittura un francobollo a esso dedicato.
Il francobollo giapponese del 1977 dedicato al Plesiosauro
Frattanto, nei due fronti emergevano
voci di dissenso: uno scienziato giapponese, Fujio Yasuda,
inizialmente sostenitore della teoria del plesiosauro, riconobbe che
i risultati dei test biochimici non potevano essere messi in dubbio.
Viceversa, uno scienziato americano, John Koster, in un articolo
uscito su una prestigiosa rivista di oceanografia e poi ripreso da
diverse altre fonti, sostenne che la questione era tutt'altro che
risolta.
Dettaglio quasi comico è quello per
cui, nei mesi successivi, alcuni gruppi di creazionisti si
impossessarono della storia, utilizzandola per mettere in dubbio
qualsiasi affermazione dei geologi e dei paleontologi, a partire
dall'età della Terra. Questa era, ovviamente, una sciocchezza
madornale. Anche se la carcassa fosse appartenuta davvero a un
plesiosauro, il concetto di Evoluzione biologica non ne avrebbe
minimamente risentito: si conoscono altre forme di fossili viventi
(organismi molto antichi che sono riusciti a sopravvivere per molti
milioni di anni senza cambiare molto), tipo il Celacanto e, guarda
caso, la maggior parte vive proprio nelle profondità marine.
La gran parte degli scienziati attribuì
comunque la carcassa a uno Squalo Elefante, il pesce più grande mai
apparso sulla Terra dopo lo Squalo Balena (entrambi questi tipi di
squalo sono innocui perché si nutrono solo di plancton). E' noto
come, durante la decomposizione, dallo Squalo Elefante si stacchino
prima le mascelle, gli archi branchiali e la pinna dorsale, lasciando
alla struttura una forma che ricorda appunto quella di un
Plesiosauro.
Uno Squalo Elefante
Schema che illustra la decomposizone di uno Squalo Elefante
Il criptozoologo (studioso di forme viventi di cui si
suppone l'esistenza, ma mai viste e mai descritte) Bernard
Heuvelmans, già nel 1968, ricordava come altre volte dei presunti
“dinosauri” o “serpenti di mare” si fossero rivelati carcasse
di squali parzialmente decomposte (citando casi di celebri mostri
marini come quelli avvistati alle Isole Orcadi nel 1808 o davanti
alla costa del New Jersey nel 1822; ma ce ne sono anche molti altri,
e altri ancora se ne osservano perfino ai giorni nostri). Gli squali
elefante tendono a essere confusi con “serpenti marini” anche da
vivi, mentre nuotano, perché la forma delle pinne dorsale e caudale,
viste in movimento o da lontano, possono dare l'impressione di testa
e gobba di un mostro serpentiforme.
Il lavoro decisivo per dirimere la
controversia fu quello condotto dall'Università di Tokio tra il 1977
e il 1978, quando il prof. Tadayoshi Sasaki organizzò un gruppo
multidisciplinare comprendente biochimici, paleontologi, ittiologi e
altri scienziati per studiare la questione da ogni punto di vista. Le
conclusioni di questo gruppo, pubblicate in un rapporto della Società
Franco-Giapponese di Oceanografia, furono che la carcassa apparteneva
senza dubbio a uno Squalo Elefante parzialmente decomposto.
A livello microscopico, infatti, i
campioni mostravano fibre cornee rigide rinvenute, rastremate verso
entrambe le estremità, di colore marrone chiaro trasparente, secondo
lo schema detto “ceratotrichia”, tipico della cartilagine che
costituisce lo scheletro degli squali. Vi era poi una notevole
quantità di Elastoidina, una proteina del connettivo che si trova
solo negli squali, mentre è assente in rettili e pesci ossei. Le
stesse percentuali complessive dei singoli amminoacidi (le molecole
che unendosi formano le proteine) dei tessuti corrispondevano quasi
esattamente alle percentuali che si registrano negli squali, diverse
da quelle dei rettili.
Dalle foto e dagli schizzi appariva che
le vertebre cervicali non potevano essere più di 7, come negli
squali, mentre un Plesiosauro avrebbe dovuto averne almeno 13. La
forma del cranio ricordava quella di una tartaruga, così come nello
Squalo Elefante, mentre il cranio di un Plesiosauro avrebbe dovuto
essere molto più triangolare. Un Plesiosauro morto non avrebbe
potuto assumere la posizione della carcassa quando fu tirata a bordo,
perché il suo grande sterno gli avrebbe impedito di piegarsi. Era
poi strano che la carcassa avesse ancora gli arti attaccati, quando
nel Plesiosauro sarebbero stati i primi a staccarsi durante la
decomposizione, e non avesse i denti e le mascelle, che un
Plesiosauro avrebbe conservato e uno Squalo Elefante no.
Le prove, ovviamente, non finivano qui.
Restava comunque qualche dubbio, circa
il puzzo della carcassa (di solito gli squali in decomposizione
puzzano di ammoniaca, ma dipende anche dallo stadio della
decomposizione), la presenza di grasso o di particolare tessuto
muscolare, l'interpretazione della forma di certi organi come le
pinne o le costole, ma tutto poteva essere spiegato ipotizzando che
la carcassa fosse già in uno stato avanzato di decomposizione.
La vicenda, dal punto di vista
scientifico, finisce qui.
Non altrettanto si può dire dal punto
di vista mediatico. Dal 1977 a oggi, senza sosta, moltissimi
creazionisti e complottisti hanno ripreso questa storia, sempre
aggiungendo interpretazioni fantasiose e citandosi a vicenda, per
denunciare delle ipotetiche e paranoiche “congiure del silenzio”
in cui gli scienziati si sarebbero prestati a coprire con la loro
autorità delle verità scomode da rivelare a vantaggio di una
versione di comodo. Basta farsi un giro sul web per rendersi conto
che gran parte dei documenti consultabili sposa la tesi del
Plesiosauro.
Occorrerebbe chiedersi quanto sarebbe
difficile confutare certe fantasiose interpretazioni se Michihiko
Yano, quel giorno, non avesse avuto la prontezza di spirito di
prelevare i 42 campioni che hanno permesso le analisi biochimiche
decisive per la soluzione della controversia. E chiedersi anche
quante “verità nascoste”, proposte ogni tanto con grande
strombazzamento mediatico, si rivelerebbero altrettante invenzioni di
menti troppo fervide e poco disciplinate, se i fatti potessero essere
affrontati e spiegati disponendo di tutto il materiale utilizzato in
questo caso.
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